Amitav Ghosh: “I muri creano desideri”
Lo scrittore riceve la laurea honoris causa in Lettere moderne all’università di Siena: «L’Occidente vive una grande delusione e perderà la sua egemonia se Mosca vincerà la guerra»
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Lo scrittore riceve la laurea honoris causa in Lettere moderne all’università di Siena: «L’Occidente vive una grande delusione e perderà la sua egemonia se Mosca vincerà la guerra»
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Lo scrittore riceve la laurea honoris causa in Lettere moderne all’università di Siena: «L’Occidente vive una grande delusione e perderà la sua egemonia se Mosca vincerà la guerra»
Parlare con Amitav Ghosh è come camminare a testa in giù. Devi accettare, per tutto il tempo, una prospettiva ribaltata. Lo sguardo del Sud del mondo sul nostro presente e sulla nostra storia. Sulle guerre e sulla pandemia. Sulle risorse e su come tutto è cominciato: con la colonizzazione, l’imperialismo, l’Occidente che dominava il pianeta ed è ancora convinto di avere diritto a un’assoluta egemonia.
Lo scrittore indiano è incantato dal rito del Palio. È in città per ricevere la laurea honoris causa in Lettere moderne dalle mani del rettore dell’Università di Siena Roberto Di Pietra. Ascolta con un sorriso i motti del Gufo, del Leocorno, dell’Istrice. Dice, per prima cosa: «È un’esperienza talmente incredibile vedere dal vivo questa cerimonia. L’unica possibilità di resilienza per il futuro è nelle comunità, nei legami, in questo rapporto tra umani e non umani, qualcosa che il mondo ha perso e che qui è presente con una tale forza, con un entusiasmo così genuino anche nei ragazzi, che mi sorprende e mi commuove»
Ghosh, scrive la professoressa Elena Spandri nella laudatio che precede il premio, ha una «fiducia illimitata nel potere della letteratura e della narrazione». Per questo, ne La grande cecità, ha chiesto al mondo delle lettere di aprire gli occhi su qualcosa che non sembrava in grado di raccontare: il cambiamento climatico. Per questo, ha fatto del rapporto animista con la terra e con la sua ribellione il sottotesto di moltissime delle sue ultime opere: La maledizione della noce moscata, La montagna vivente.
Vive tra Goa e New York. Ha parlato con i braccianti dell’Illinois e con i migranti climatici che arrivano in Italia. Ha studiato il fenomeno dell’oppio nella Cina dell’800 e negli Stati Uniti devastati dal Fentanyl. «Non è uno studioso che si serve della fiction per divulgare conoscenze enciclopediche – dice ancora Spandri – ma un romanziere che ha trovato nella storia, nell’antropologia, nell’ecologia nell’economia, nella medicina, nella zoologia, nella botanica, la sorgente più autentica della propria ispirazione artistica».
Con l’avanzare delle destre e dei populismi, sia negli Stati Uniti che in Europa avanza il negazionismo climatico: non vogliamo accettare che il pianeta stia presentando il conto del suo sfruttamento. Non vogliamo fare niente, per fermare la sua distruzione. Come spiega che tanto aumenta la consapevolezza scientifica, tanto retrocede quella politica?
«Il mondo finge di essere preoccupato del cambiamento climatico, ma non lo è. A essere onesti, quel che è successo negli ultimi due anni soprattutto in Occidente dal punto di vista ambientale è un autentico disastro. Il problema dei Verdi e dei movimenti ambientalisti europei è presto detto: l’Unione europea ha sviluppato per anni un modello di agricoltura industriale su larga scala, di cui l’Olanda è un ottimo esempio, davanti alla quale tu non puoi arrivare all’improvviso e dire: adesso basta, c’è il climate change, non potete più fare come volete. Perché gli agricoltori sono dipendenti da quel modello e senza compensazioni, senza sistemi alternativi, non potranno che ribellarsi».
Com’è successo in Francia, in Olanda, in Germania.
«È chiaro che in questo modo crei un disastro e una resistenza di popolo a qualsiasi tipo di legislazione sul clima».
È così anche in Italia?
«Molto meno, perché non ha adottato completamente quel modello. Così come non lo ha fatto nei piccoli centri. Sono stato di recente nella Francia rurale. Nel paesino in cui ero non esistevano negozi di alcun tipo. Per comprare una qualsiasi cosa, dovevi prendere la macchina e andare all’ipermercato. In Italia siete fortunati, non è ancora così».
È il modello suburbano americano.
«Un modello che ha distrutto il senso di comunità, il che ha molto a che fare con l’ambiente. Quando arriva un disastro, ad esempio una catastrofe climatica, quel che può aiutare le persone a contrastarlo è proprio l’essere comunità. Qui a Siena lo sentite in modo molto forte. A New York o Houston sarebbero tutti per strada con le loro pistole. Qui no, e questa è esattamente la forma di resilienza di cui abbiamo bisogno».
Ma si può realisticamente tornare indietro dall’agricoltura industrializzata? Non è del tutto velleitario?
«Da un punto di vista puramente tecnologico, si può deindustrializzare l’agricoltura, si possono non usare in modo massiccio fertilizzanti, mantenendo lo stesso livello di produttività. Ma in cambio avresti bisogno di molta più manodopera. Il problema quindi non è tecnologico, ma sociale, perché a questo punto è impossibile interessare un ragazzo al lavoro in un’azienda agricola».
Perché è un lavoro faticosissimo dal quale in qualche modo pensavamo di esserci affrancati?
«Vale qui come in India o in America e direi che ci sono due ragioni: i giovani non vogliono lavorare fuori, sotto al sole, esposti alle intemperie, quando possono farlo al chiuso in un supermercato. In più, il lavoro di manodopera agricolo è associato alle comunità di migranti più svantaggiate. Porta con sé una sorta di stigma».
Oltre allo stigma, ci sono lo sfruttamento e le condizioni inumane che in questi giorni in Italia ha svelato la storia di Satnam Singh. Ma che tutti conosciamo da anni.
«Ho sentito. È puro schiavismo».
E questo ci porta a un altro dei temi toccati nei suoi libri, le migrazioni. Quelle stesse destre che tendono a negare il cambiamento climatico pretendono di fermare i migranti che dal Sud globale arrivano sulle nostre coste. Lei vede questa dinamica come parte di un unico problema, molto più grande.
«Uno dei migranti che ho intervistato qui in Italia mi ha detto: se tutti questi politici vogliono fermare i flussi possono farlo, basta che tirino giù internet».
Perché a guidare è il sogno di una vita migliore riflesso sui social media?
«Non so se sia l’idea di una vita migliore, ma internet crea immagini potenti che diventano richiami. E il trasporto dei migranti sta diventando il più importante traffico clandestino a livello mondiale. Ogni migrante con cui ho parlato in Italia era pentito di essere venuto. Non voleva stare qui».
Voleva tornare indietro?
«Quel che vorrebbero è una situazione in cui vengono, lavorano un po’, fanno abbastanza soldi per migliorare la loro vita e poi tornano indietro. Bisognerebbe creare una circolarità della migrazione, non tenere le persone intrappolate nelle lungaggini delle richieste d’asilo. Cosa c’è di male nella migrazione economica? Funziona da sempre. Se non ci fosse, interi settori in America collasserebbero, qualunque cosa dica la politica che finge di volerla fermare: collasserebbe l’industria agricola, quella della carne, dei pollami».
Si può immaginare un mondo in cui ognuno vive dove trova lavoro, senza frontiere impossibili da sigillare?
«Uno scrittore italiano, Stefano Liberti, che ha attraversato con i migranti le rotte africane, una volta mi ha detto una cosa che mi ha colpito: il modo migliore di controllare le migrazioni è rendere i visti più facili. Uno arriva, se non trova lavoro torna indietro. I muri creano desideri».
Un fanatico dei muri è Donald Trump. Crede che un suo ritorno alla Casa Bianca sia un pericolo per il mondo?
«Probabilmente farà uscire gli Stati Uniti dagli accordi sul clima, ma con Biden gli Stati Uniti sono diventati i maggiori produttori di combustibili fossili nella storia. Che differenza c’è?».
Che con Trump non proveranno nemmeno a tornare indietro?
«Gli Stati Uniti e il G7 oggi sono meno potenti di un tempo dal punto di vista economico. I Brics hanno un pil collettivo più grande di quello dei Paesi del G7. A determinare il futuro del mondo non è solo quel che succede in America, ma quel che succede in Cina. Credo che l’approccio di Biden al clima sia trovare soluzioni orientate dal mercato, ma sono inefficaci. Se davvero gli Usa vogliono passare alle energie alternative su larga scala, perché non consentono il commercio delle auto elettriche cinesi che costano un terzo di quelle americane? Perché non permettono di importare pannelli solari? La verità è che vogliono mantenere il dominio economico».
Davvero pensa che Trump, i cui sostenitori hanno assaltato il Congresso americane, che usa parole che richiamano il Mein Kampf di Hitler, e potrei continuare, non sia peggiore di Biden?
«È peggiore per molti versi, terribile su cose come l’aborto, i diritti umani, il proliferare delle armi. Ma resta il primo presidente americano sotto il cui mandato non è cominciato nessuna nuova guerra. Mentre il partito democratico americano è stato estremamente aggressivo a livello globale. C’era Hillary Clinton segretaria di Stato quando la Nato ha bombardato la Libia».
Ma possiamo credere che i mali del mondo risiedano tutti negli errori delle democrazie occidentali? Che non abbiano a che fare anche coi regimi illiberali?
«C’è senz’altro di più e quando ci sono due mondi in lotta l’aggressività viene dall’una e dall’altra parte. Penso che l’occidente stia vivendo un momento di profonda delusione. Quando è caduta l’Unione sovietica pensava che il problema delle armi nucleari sarebbe scomparso, perché mai? La Russia e la Cina avevano ancora il loro arsenale. Ma i Paesi occidentali si sentivano talmente potenti da credere che nessuno li potesse minacciare. Quando all’inizio degli anni 2000 gli Stati Uniti si sono ritirati dai trattati di non proliferazione nucleare, è stata una provocazione incredibile. Dopo l’aggressione russa all’Ucraina, pensavano che le sanzioni avrebbero distrutto la Russia, ma non è successo».
Siamo tornati alla cortina di ferro? Con il mondo diviso in due?
«Io non paragonerei questo periodo alla guerra fredda, credo sia un cambiamento geopolitico che risale al quindicesimo secolo. Da allora, con il colonialismo, l’Occidente ha dominato il mondo. È andato avanti così fino agli anni ’40 del ‘900 poi è cominciata la decolonizzazione. E adesso il mondo sta tornando alla situazione precedente al quindicesimo secolo. Questo è psicologicamente impossibile da accettare per l’Occidente. Boris Johnson ha detto che se la Russia vince in Ucraina sarà la fine dell’egemonia occidentale. È così».
Non c’è solo l’Ucraina. C’è il Medio Oriente, il 7 ottobre, Gaza, Taiwan.
«Sono tutti fuochi dello stesso cambiamento geopolitico. Le élite europee e atlantiche non hanno interesse a fermarli perché hanno paura di perdere».
Tornando al cambiamento climatico, che lei nei suoi libri lega molto alla geopolitica, cosa sta accadendo? Com’è possibile sia diventato un tema così divisivo? Crede sia anche colpa dell’estremismo climatico? Di quelli che qui in Italia alcuni a destra chiamano ecoterroristi?
«L’Italia ha ora 4 o 5 eventi estremi al giorno, nessuno può vivere come se questo non fosse vero. Come si fa a svegliare le persone su quello che è attorno a loro, se non vogliono svegliarsi? È questo il problema dell’attivismo: qualsiasi altra cosa è fallita, i politici non la prendono seriamente, i giovani sono preoccupati del futuro. Cos’altro possono fare?».
Il cambiamento climatico globale è dovuto alle ricette del capitalismo senza limiti?
«Alcuni la pensano così, io credo sia legato all’imperialismo. L’Occidente, impegnato a mantenere la sua egemonia globale, è disposto a spendere qualsiasi cifra per farlo. Basta paragonare quelle cifre a quel che spende per la mitigazione degli effetti climatici».
Il desiderio di egemonia è solo occidentale? O anche russo, cinese?
«Anche qui, è da entrambe le parti».
Secondo lei l’Occidente nel raccontarsi non riconosce il suo desiderio di egemonia?
«In relazione con il Sud del mondo, il punto è proprio questo. Ed è la ragione per cui quei Paesi non stanno dalla parte dell’Occidente nel conflitto russo-ucraino».
Nel suo prossimo libro, “Smoke and Ashes”, in uscita a febbraio per Einaudi, lei va dalla storia della migrazione dei suoi avi alle guerre dell’oppio con la Cina fino all’epidemia di Fentanyl negli Stati Uniti.
«Le storie sono simili. Il commercio di droga fu inventato dal colonialismo che lo ha usato contro la Cina, costringendola a continuare a importare oppio dall’India. Quello che vediamo oggi è l’opposto d quello scenario: l’Occidente sta attraversano quel che la Cina ha affrontato nell’800. Un collasso di fiducia che diventa collasso di potere, indebolimento delle istituzioni statali, corruzione. Quel che sta accadendo negli Stati Uniti con le droghe oggi è incredibilmente simile alla Cina di allora, basta guardare un episodio di Breaking Bad. Gli oppiacei hanno la capacità di indebolire gli Stati. Creano una crisi di fiducia nelle istituzioni pubbliche. In 5 anni di crisi dell’ossicodone gli Stati Uniti hanno avuto più vittime che nella seconda guerra mondiale».
E le politiche anti-droga non servono a nulla?
«Fanno rumore, ma le morti legate agli oppioidi stanno aumentando. Il Fentanyl è difficile da fermare, arriva per posta. E i primi spacciatori sono state persone di cui si tende a fidarsi: medici, infermieri, farmacisti».
Qual è oggi la sua più grande paura?
«Il cambiamento climatico è una minaccia a lungo termine, ma in questo momento penso sia molti più probabile che l’umanità si autodistrugga. Russia e America non si telefonano nemmeno più, non c’è la linea diretta che esisteva durante la guerra fredda. Il mondo non è mai stato in questa situazione: siamo sull’orlo di una guerra nucleare e non capiamo quanto facilmente tutto possa, da un momento all’altro, esplodere».
Nell’immagine: Amitav Ghosh con il suo libro “ Smoke and Ashes”
La strana proposta di un alto esponente dell’Alleanza Atlantica sta scuotendo l’Occidente
L’Europa coesa, solidale, inclusiva semplicemente non c’è. Non esiste. Se c’è una crisi tra due Paesi dell’Unione si prova a correre ai ripari