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Naufragi

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Enrico Lombardi
Enrico Lombardi
Sembra ovvio, ma ovvio non è: si può...
• 16 Giugno 2022 – Enrico Lombardi
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“Un magazine culturale televisivo? In terza serata? Una scommessa persa in partenza; una barba assicurata; trasmissione elitaria, che non sa interessare; informazioni e interviste per pochi addetti ai lavori; costa troppo per gli ascolti che fa: più giornalisti che spettatori; si vada a vedere quant’è il costo al minuto per spettatore; e nüm a pagum!”

Si potrebbe andare avanti a lungo sgranando come una sorta di rosario delle etichette preconfezionate tutte le varie “controindicazioni” che da tempo ormai, e sempre più frequentemente, accompagnano qualsiasi progetto che intenda portare la cultura sullo schermo televisivo.

Non che alla radio sia più facile, beninteso, ma lì rimane qualche margine in più (o qualche prevenuto fronte avverso in meno) per “tollerare” che ci si provi. E per questo, intanto, dalle nostre parti abbiamo addirittura un’intera Rete. Ma alla televisione, per carità: belle intenzioni, certo, meritevoli di menzione nei consessi ufficiali, là dove si parla (perché se ne deve parlare) di “mandato culturale”, di “identità culturale”, di “difesa della lingua” ed altri sacri valori buoni per le allocuzioni. Poi, di fatto, quando uno ci si mette, trova tanti e tali ostacoli e soprattutto lo spauracchio, preliminarmente impugnato, dell’assicurato flop degli indici, che volercisi mettere comunque, nonostante tutto, è già un atto di coraggio.

Intendiamoci, il problema è comune a tutte le emittenti di servizio pubblico, in Svizzera, in Europa: c’è un mandato, ci si deve provare, ma poi il pubblico, il grande pubblico non lo si cattura, e così, si finisce in angolini nascosti dei palinsesti con “piccoli programmi” fatti con pochi soldi. In Italia a provarci un po’ più seriamente c’è RAI3, che ha portato di questi tempi ben due programmi sulla musica (classica, jazz e popolare) nel ricco “preserale” (con Augias e Bollani).

Anche da noi ci sono momenti “protetti” (per ora) come quello della domenica mattina di “Paganini”. Questione più difficile diventa pensare ad uno spazio di immediato accesso, magari in primissima serata. Ci si è provato, ma con il freno a mano talmente tirato, con tanta preoccupazione di piacere a tutti, da non riuscire poi a trovare una vera e riconoscibile struttura al programma; la “divulgazione” (necessaria) diventa così puro intrattenimento, improvvisazione, e alla seconda o terza volta, invece di accontentare si scontenta tutti.

È vero, il discorso, qui, è forse un po’ estremizzato, o ridotto ai minimi termini in maniera eccessivamente sbrigativa, ricorrendo a casi ed ipotesi che corrispondono banalmente a dei cliché. Ma poi, ecco che se si volesse anche solo accettare la scommessa di misurarcisi, con i cliché, magari se ne caverebbe anche qualcosa di buono, perché una cosa è partire dai cliché, un’altra è finirci dentro, prigionieri.

Il nuovo programma culturale di terza serata della RSI, intitolato giustappunto Cliché, si presenta per prima cosa come un progetto che ha bene in chiaro il contesto in cui si muove, e prova a fare delle scelte, a prendere delle decisioni preliminari, come quella, per nulla scontata, di accettare il confronto con la banalità dei concetti triti e scontati, per rigirarli con intelligenza ed ironia cercando di dare alle idee, e alle parole che le esprimono, un significato, se possibile, sorprendente, inatteso.

È quello che riesce a Lorenzo Buccella nel suo appuntamento notturno che stasera vedrà andare in onda l’ultima delle quattro “puntate pilota” che hanno cercato di “sondare il terreno” e saggiare i riscontri: ne ha già detto opportunamente e acutamente Marco Züblin in “Azione”. Buccella è un bravo giornalista, che ha dato prova delle sue qualità di “scrittura” nei suoi tanti ed apprezzati servizi proposti negli scorsi anni in qualità di corrispondente del TG da Roma.

Già, la “scrittura”, troppo spesso sottovalutata in una tv come la nostra che non ha particolarmente mai investito sugli “autori” (e, semmai, solo su qualcuno ingaggiato altrove), si ritrova in “Cliché” come vera chiave di volta capace di dare il senso di “novità” al programma. E non si tratta soltanto di “scrittura” tout court, della concezione e utilizzazione di “testi” che Buccella sfodera e sciorina da par suo, ma si tratta anche di attenzione verso la grammatica di un programma televisivo, che ha proprie regole ed esigenze.

In “Cliché” dunque, possiamo trovare, certo, degli “speech” che in un paio di minuti sanno farci uscire dal labirinto delle frasi fatte grazie alle doti “acrobatiche” del lessico immaginifico dell’autore- conduttore, ma rinveniamo anche un’attenzione davvero non comune nel corredare i testi con immagini che sanno aggiungere, inventare, aumentare, sottolineare i significati del discorso (grazie anche ad una collaborazione interessante con le redazioni di SPAM e di Cult+), dentro un contesto visivo di uno studio-magazzino che pare uscito dall’hangar di Harry Caul, il mitico personaggio interpretato da Gene Hackman nel celebre film di Coppola “La conversazione” (1974).

Anche quella di Buccella è una “conversazione” che diventa “auscultazione” di quanto, parlando, ci pare banale e trascurabile, ed invece può riacquisire senso, avere una propria nuova valenza; anche in “Cliché” le parole si esprimono, si dicono e si ascoltano, in un contesto d’ombra che prende forma con la luce di monitor, di un ascensore e delle parole degli ospiti, di richiamo e di livello, come ad esempio, Stefano Bartezzaghi, Mario Botta, Monika Schmutz Kirgöz (la nostra Ambasciatrice a Roma).

Ma anche gli ospiti “filmati”, in intervista e in brevi ritratti (da Jovanotti a Rula Jebreal, solo per fare due esempi) sono indubbiamente ben inseriti, valorizzati, proposti con un giusto ritmo, senza l’ansia e senza il rischio che parlino troppo.

Insomma, gli “ingredienti” sono dosati e scanditi, dentro un “impianto” che trova nelle sonorità (forse appena un po’ cupe) della musica in diretta di Camilla Sparksss, un’ ulteriore componente di coerenza costruttiva dell’intero programma, in cui ci pare di intuire un’ottima intesa creativa fra autore/presentatore, regista e cameramen.

Dunque la cultura in televisione si può fare? Certo che si può, e in vario modo. In termini di “aggiornamento settimanale sugli appuntamenti in agenda” da tempo c’è “Turné”, che dentro i confini a volte un po’ angusti (ma protetti) del Quotidiano del sabato, fa del suo meglio ed offre in tempi rapidi dei piccoli approfondimenti di valore.

Poi c’è la ducumentaristica di “Storie”, dalla grande tradizione in RSI, e le offerte di film e documentari tradotti ed adattati, spesso di notevole livello. Ci sono le serate speciali (come quelle sull’Afghanistan o su Pasolini). Ed ora c’è anche “Cliché”, che dovrebbe poi tornare in autunno.

Ce lo auguriamo. Non vorremmo dover aggiungere un altro tassello alla serie di “cliché” evocati per dire che la cultura in tv non passa. Non sia mai.






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