Di antisemitismo e di altro ancora
È giusto non dimenticare il punto di partenza della nuova tragedia israelo-palestinese; ma l’eccesso di distinguo non porta che ad altre catastrofi
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È giusto non dimenticare il punto di partenza della nuova tragedia israelo-palestinese; ma l’eccesso di distinguo non porta che ad altre catastrofi
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È giusto non dimenticare il punto di partenza della nuova tragedia israelo-palestinese; ma l’eccesso di distinguo non porta che ad altre catastrofi
Io ci sto. Non è del tutto sbagliato cercare di distinguere la strage degli innocenti del 7 ottobre dal diritto dei palestinesi ad avere una propria ‘homeland’ in una parte della Palestina. Non si deve stabilire uno stretto legame fra i due fatti. D’accordo, ma poi va registrato che gli stessi che insistono su tale distinzione, in passato e oggi (probabilmente domani) ripetono che comunque occorre rispolverare la “soluzione dei due Stati”, almeno per distruggere gli inneschi, spegnere le micce, prosciugare i pozzi dei veleni che hanno anch’essi fatto da carburante alla follia e alla ferocia di tre settimane fa.
Ci sto. È vero, la mattanza perpetrata da Hamas ha gettato abbondante benzina sui carboni ardenti e mai del tutto eliminati dell’antisemitismo riproposto nelle strade e nelle piazze d’Occidente. Ci sto, ma a condizione che la denuncia dell’antisionismo non serva a scaricare e ottundere la nostra memoria. Fu l’Europa il principale storico teatro dei pogrom, i primi ghetti in cui isolare le comunità ebraiche furono opera di santa madre Chiesa, e la Shoah, lo sterminio pianificato di milioni di ebrei, venne realizzata dalla Germania nazista, supportata da una popolazione volontariamente complice, nazione che era pur stata celebrata come culla di grande cultura. In più: le molte nazioni del vecchio continente che comunque sottoscrissero leggi antiebraiche, chiusero le porte agli israeliti in fuga, negarono o nascosero nei cassetti delle loro cancellerie le prove di lager e camere a gas. Cosa fu la nascita di Israele in Palestina nel 1947 se non anche un nostro atto collettivo di riparazione? Golda Meir parlò di ‘terra senza popolo per un popolo senza terra’. Ma Ben Gurion, più onestamente, disse ai suoi: “Non dimentichiamo cosa abbiamo fatto agli arabi”.
Io ci sto. Condivido lo sconcerto e l’inquietudine per una Turchia che si raduna in massa nell’attacco a Israele, che si stringe attorno al suo leader Erdogan , il quale condanna soltanto Israele, definisce Hamas puro movimento di liberazione, lui massacratore del popolo curdo, che nega il genocidio armeno, satrapo (di nuovo ‘democraticamente’ eletto) di un paese scivolato nell’autocrazia, affidatosi a un leader che sogna la rinascita di una sorta di impero ottomano, e la cui bussola politica è un’ambiguità furbesca e cinica, le cui alleanze sono a tempo e a geometria variabile. Ci sto, ma sono più cauto rispetto a chi anche in quelle piazze coperte di bandiere rosse e con mezzaluna bianca vede unicamente l’antiebraismo. Dimenticando che Ben Gurion, sì ancora il padre dello stato ebraico, lasciò la Polonia per raggiungere la Palestina vedendo proprio nei modello dei “millet” dell’impero turco la possibilità di ritagliarne uno per mettere in sicurezza il popolo ebraico.
Sì, ci sto. Anch’io rabbrividisco allo spettacolo dell’aereo che, proveniente da Tel Aviv, atterra nel Daghestan, nello Federazione russa, e viene circondato da centinaia di esagitati manifestanti musulmani (la maggioranza in quella provincia di Mosca) che danno la caccia ai passeggeri con passaporto israeliano. Ma chi ha ricordato, fra i pacifisti impegnati per la fine del conflitto in Ucraina, che qualche nesso ci deve pur essere fra questo attacco anti-semita e il fatto che al Cremlino è stato ricevuto un esponente di Hamas in coppia con uno dell’Iran, che il Putin imperdonabile massacratore della popolazione musulmana cecena ritiene oggi di inserire nell’alleanza anti-occidentale del “Sud globale”?
Io ci sto. Naturalmente condivido l’opinione per cui chi pretende di aspirare alla guida di una popolazione svantaggiata dalla storia, e anche dagli errori e dall’incapacità della sua passata leadership, avrebbe dovuto pensare per prima cosa a garantirne il benessere nella sicurezza, e di occuparsi meno di razzi, i missili, tunnel dove accumularli. Eppure non so quante volte ho scritto e ripetuto che nemmeno questo poteva bastare, già ai tempi in cui esponenti laburisti di governo ripetevano che Israele portava ai palestinesi sotto occupazione benessere e istruzione, e questo sarebbe stato sufficiente ad assopire o annullarne le ambizioni nazionali. Sottovalutando il fatto che, al contrario, avrebbe potuto irrobustire una maggiore consapevolezza della loro inaccettabile condizione, fino a farla esplodere. Se non ci fosse stato Hamas, ci avrebbero pensato altri in un mondo nel quale si è sempre più connessi ad altre realtà, ad altro benessere, ad altre magari solo immaginarie ma attraenti libertà. Mentre oltretutto la Striscia che avrebbe dovuto autogovernarsi, produrre ricchezza e non bombe, dimostrando così la sua saggezza, era in realtà circondata militarmente su quattro lati, soffocata, senza autentica autonomia, soffocata anche da parte egiziana, senza possibilità di uscita per una popolazione maggioritariamente giovanile, costretta a dipendere (per ben il 70 per cento della popolazione) dalla carità internazionale, beneficiaria di crediti da parte di paesi arabi che di quell’aiuto si servivano per le proprie strategie locali e internazionali.
Ci sto. Anch’io penso che un futuro dialogo di pace fra Israele e Hamas sia impensabile. Eppure non si è ancora capito con chi Gerusalemme e i suoi supporters mondiali pensano di dover trattare. Viene disseppellita per comodità e in assenza di praticabili alternative la “road map” di Oslo. Quell’accordo che Yasser Arafat accettò da una posizione di debolezza (riconoscendo finalmente l’esistenza di Israele) pur di essere riaccettato dalla comunità internazionale dopo l’appoggio a Saddam Hussein, risultato di un rapporto politico-militare asimmetrico, evaporato presto con l’assassinio di Yitzhak Rabin sulla piazza dei Re di Israele di Tel Aviv dalle pistolettate di un ragazzo dell’estrema destra israeliana, e poi definitivamente affossato, quello ‘storico’ accordo, nel parallelo lievitare della radicalità colonizzatrice-religiosa israeliana e dell’estremismo jihadista a Gaza. E Poi: come riabilitare oggi e imporre ai palestinesi di Cisgiordania un’ANP laica ma sempre più covo di incapaci e corrotti, sottomessi al volere di Tsahal, mentre cresce a dismisura la popolarità di Hamas nelle terre palestinesi fra Gerusalemme e il fiume Giordano.
Io ci sto. Hamas terrorista, certo, con l’utilizzo cinico dei civili palestinesi usati anche come “scudi umani”. Basta non dimenticare che quarant’anni fa, pur di contrastare i diritti dei palestinesi, furono proprio i governi israeliani a favorirne la nascita e la crescita. Convinti che ridurli nelle moschee, nelle preghiere, nei progetti caritatevoli, nel controllo dei centri sociali di Gaza fosse ricetta salvifica, garanzia perenne, mantra della sicurezza dello Stato ebraico, che si affidava soprattutto alla strategia dello “statu quo”. Tutto immobile, Ibernazione della questione palestinese. Certezza che l’umiliante, oppressiva occupazione del Territori potesse continuare dietro il “muro di sicurezza”, confortata dal silenzioso lasciapassare della comunità internazionale, che ora piange abbondanti lacrime asciutte, a sua volta condizionata dall’esercito più vincente e celebrato del Medio Oriente.
No, ad un certo punto non ci sto più. Non ci posso stare se la replica legittima, studiata, mirata di Israele diventa invece quella che è in corso. Pura punizione collettiva. Già più di settemila morti. E l’idea di tregua umanitaria, almeno per una manciata di ore al giorno, diventa addirittura una bestemmia.
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