Quarant’anni di fedeltà alla linea
Il gruppo musicale dei CCCP, cui è dedicata una mostra a Reggio Emilia, nel ricordo di un primo e unico concerto svizzero a Mendrisio
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Il gruppo musicale dei CCCP, cui è dedicata una mostra a Reggio Emilia, nel ricordo di un primo e unico concerto svizzero a Mendrisio
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Il gruppo musicale dei CCCP, cui è dedicata una mostra a Reggio Emilia, nel ricordo di un primo e unico concerto svizzero a Mendrisio
Lavoravo già da un anno alla Rsi e nei miei programmi non mancavano certo punk e new wave con un occhio di riguardo alla scena italiana: dalla Bologna di “Mamma dammi la benza” per intenderci, e dunque Gaznevada, Confusional Quartett, Stupid Set e Wide Open, alla Firenze dei primi Litfiba, dei Neon, Pankow e Diaframma solo per citarne alcuni. Ma anche i torinesi Negazione o i Frigidaire Tango e i Detonazione “dell’operoso nord-est”, senza scordare la scena milanese, albergavano i miei palinsesti musicali. E fu anche per questo che fui avvicinato dai giovani dell’allora Partito del Lavoro incaricati di organizzar l’annuale festa con l’intento di svecchiare la colonna sonora. Una proposta che mi coinvolse, in quanto ardeva il desiderio di scardinare l’assioma festa del partito = canzone d’autore impegnata e di protesta, barbe fluenti, camicie a quadretti e fiasco di merlot, per esemplificare. Volevano affrancarsi dai Guccini, dai Pietrangeli, dagli Ivan della Mea e i loro nobili epigoni per qualcosa di più fresco, nuovo, contemporaneo, “giovane”!
Proposi loro, tra i molti, i CCCP. Sconosciuti o quasi nelle nostre lande alla periferia dell’impero. Ma il nome sapevo che avrebbe potuto acchiappare ed era in linea con l’ortodossia del partito. E loro, i giovani della base, potevano spenderlo con gli alti papaveri. Eravamo nel 1986, il muro faceva ancora bella mostra di sé, la DDR era ben salda, credo, nelle mani di Honecker. Cuba era alle viglia delle elezioni il cui esito era a dir poco scontato. E loro, i CCCP, che mi ero già goduto quell’anno, dal vivo erano a dir poco deflagranti, coinvolgenti, provocanti. E da poco avevano pubblicato “1964-1985 Affinità-divergenze fra il compagno Togliatti e noi – Del conseguimento della maggiore età”.
Amavo la loro musica e l’urgenza di raccontare un mondo in frantumi: l’Occidente imperialista e l’Oriente comunista; ma anche il loro, la provincia, la Pianura Padana. E lo facevano con una furia punk e un’attitudine situazionista, modellando un insieme musicale e concettuale davvero inedito per l’Italia e non solo. Anche l’amato Pier Vittorio Tondelli ne scriveva con fervore su “L’Espresso” o più tardi nel capitolo “Punk, falce e martello” di “Un weekend post moderno”.
L’opera di convincimento andò a buon fine e si contrattualizzò. Il mio impegno per il momento si fermò lì, dopo aver messo in contatto le parti per i dettagli. Ero felice anche perché avevo garantita un’intervista in loco con una band che amavo in modo viscerale per la forma e la sostanza, e da tempo! Intervista su bobina 7 pollici che ancora custodisco gelosamente e che uscirà dall’oblio proprio nei prossimi giorni.
I CCCP arrivarono nel pomeriggio di quell’uggioso novembre del 1986; sbarcarono degli alieni. Vero che il mio look o come si dice oggi “outfit” non era molto diverso dal loro. Li accolsi, gli feci fare il giro della sala, lì portai nel camerino, sul palco per le prove. Feci l’intervista, una bella e lunga chiacchierata nell’attesa che il palco fosse pronto per il sound check. Nel frattempo, gli operosi addetti alla buvette davano fuoco alle polveri allestendo la mescita e attizzando le braci per la cucina; e già ci guardavano un po’ di trasverso. Il sound check fu uno spettacolo, almeno per me: le chitarre “grattugiate” di Zamboni, la voce salmodiante di Giovanni, l’iconica presenza di Annarella, la “benemerita soubrette del popolo”, l’inquietante e straniante fisicità di Fatur oltre a scolpire plastiche immagini care all’ iconografia d’oltre Cortina facevano tremare i calcinacci della sala, affrescando l’aere con traiettorie soniche inaudite. Qualche legittimo dubbio già s’istillava tra le maestranze al lavoro. Perbacco era pur sempre una festa popolare del partito, la liturgia coi suoi crismi non sembrava aderente alla tradizione. A cena Giovanni Lindo & Co placavano la mia sete di conoscenza, nel raccontar della loro avventura artistica e umana. Era un piacere discutere, chiedere, ascoltare soprattutto. Della loro Emilia paranoica, della loro Berlino, della loro estetica e poetica.
La sala ribolle di gente, un’umanità variegata tra punkettoni provenienti d’oltre confine con tanto di creste che si miscelano al fustagno e al velluto a coste dei calzoni e delle giacche dai colori spenti; “chiodi borchiati” e camicioni a quadretti, jeans strappati e gilet da pescatore. Anfibi, spille e qualche birkenstock fuori stagione. Ignari fedeli alla tradizionale liturgia della festa, giovani punkettoni eccitati come satanassi.
Il viaggio sonico dei CCCP prese avvio con “Mi Ami?” brano il cui incipit recita “Un erezione triste, per un coito modesto” per intenderci; per proseguire con canzoni già classiche e militanti del loro repertorio, e già mandate a memoria quali “Islam punk”, “Spara Juri”, “Militanz”, “Emilia paranoica”. Iconiche grazie a riff chitarristici ossessivi e lancinanti, a parole urlate o salmodiate, a slogan efficaci, alla loro suggestiva narrazione. E mentre i punkettoni pogavano, coglievo del disagio, un misto di sconforto e incredulità sui volti dei “militanti anziani”. Alcuni tra loro si avvicinarono, iniziando una discussione sulla liceità della proposta che appariva sempre più affrancata dalla narrazione della festa. I toni si accendevano, sentivo il peso di una sorta di responsabilità morale. Ero in imbarazzo. Non c’erano “Bella ciao”, “Contessa”, “Per i morti di Reggio Emilia” o “L’avvelenata” per intenderci.
Ma dall’impaccio e dall’imbarazzo mi salvarono loro, i CCCP quando attaccarono “A ja Liubljiu SSSR”, praticamente l’inno sovietico cantato con altre parole quali ad esempio: “Il fuoco di un cuore che incendia la mente può fondere il gelo del marmo bollente”. Sulle solenni note dell’inno ogni tensione si stemperò. Mani sul cuore e pugno alzato, timidi sventolii di bandiere rosse, qualche anziano volto imperlato di lacrime e commozione. Occasione ghiotta per sottrarmi e dileguarmi fino al termine di una performance totale, intensa anche sconvolgente per l’epoca. Quella che ritengo sia ancora una pagina di storia artistica, musicale e forse sociale della nostra regione.
P.S.: negli anni a venire nessuno più mi ha chiesto opinioni o pareri relative ad artisti da invitare.
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