La cosiddetta Rivoluzione dei garofani del 25 aprile 1974 portò dunque alla caduta dell’Estado Novo e del regime salazarista, che aveva governato il Paese per quasi mezzo secolo. Seguì dapprima una fase di transizione, affidata a figure vicine alle forze armate ribelli che avevano guidato il colpo di Stato. Dovettero trascorrere altri 2 anni per arrivare alle prime elezioni legislative -simbolicamente in calendario il 25 aprile 1976 e vinte, con il 37% delle preferenze, dal socialista Mário Soares. A quel primo Governo democratico ne sono seguiti 24, in media uno ogni 2 anni, in cui si alternavano regolarmente PS e PSD.
Sempre quel 25 aprile 1976 entrò in funzione la nuova Costituzione, fortemente ispirata a ideali e valori socialisti. All’art. 9d, per esempio, si cita, tra i compiti fondamentali dello Stato, quello di “socializzare i mezzi di produzione e ricchezza“.
Articoli come questo – che portò alla nazionalizzazione di molte imprese – verranno modificati nel 1989 per permettere al Paese, privatizzando, di aprirsi agli investimenti stranieri e di superare così la pesante crisi economica di cui dirò fra poco. La nuova versione dell’art. 9 affida allo Stato il compito di “Promuovere il benessere e la qualità della vita del popolo e l’uguaglianza sostanziale tra i portoghesi, e rendere del pari effettivi i diritti economici, sociali, culturali e ambientali, mediante la trasformazione e la modernizzazione delle strutture economiche e sociali”.
Nel 1975 il Portogallo garantì l’indipendenza alle sue colonie in Africa (il Brasile si era proclamato indipendente già nel 1822). Più di un milione di afro-portoghesi abbandonarono Angola, Mozambico, Guinea-Bissau, Sao Tomé e Principe, Capo Verde poi diventati, in parte, terreno di sanguinose guerre civili. La Rivoluzione dei garofani, insomma, portò anche al disgregamento definitivo di un impero coloniale che aveva resistito per oltre cinque secoli. Molti cittadini d’oltremare emigrarono raggiungendo la vecchia Patria: oggi nella sola grande Lisbona – circa 3 milioni e mezzo di abitanti – il 15% è costituito da persone delle ex colonie, comprese quelle asiatiche di Timor, Macao e Goa. Contemporaneamente, dopo la Rivoluzione, molti portoghesi sono partiti per cercare fortuna in altri Paesi europei e nelle Americhe: attualmente il Portogallo conta circa 10.5 milioni di abitanti, ma all’estero vivono almeno altri 5 milioni di portoghesi. Il Portogallo è il Paese europeo con il più alto tasso di emigrazione. Oggi sono circa 2,3 milioni i portoghesi che vivono all’estero, il 70% dei quali di età tra i 15 e i 39 anni, partiti perché in patria non trovavano un lavoro. Oggi il tasso di disoccupazione giovanile è attorno al 23%, quello complessivo al 6.5%. Il salario minimo di 960 € al mese. A rientrare in patria, ma senza compensare le partenze delle generazioni più giovani, formate e professionalmente attive, sono invece fasce anagrafiche più vecchie, nate negli anni Cinquanta e partite dal Portogallo dopo il 1974. Nella sola Svizzera vivono oggi 260 mila cittadini lusitani.
Torniamo però alla storia. Nel 1979 si tengono nuove elezioni legislative: ad imporsi, con 18 punti di margine sul PS e 54 seggi in più, il PSD, storica formazione di centro-destra. Da quel momento e sino ad oggi le due formazioni si alternano alla guida del Paese. Nel 1986 il Portogallo entra nell’Unione europea. Nel 1999 adotta la moneta unica. Nel 2002 l’UE impone a Lisbona di aggiustare i conti pubblici in profondo deficit e a rientrare nei parametri del Patto di stabilità. Ne derivano tagli drastici alla spesa e un numero sempre maggiore di privatizzazioni.
Nel 2008 la crisi economica e sociale è palese: l’adozione dell’Euro, la debolezza e la scarsa competitività del Portogallo sul mercato internazionale, la necessità di importare molti più beni di quanti se ne esportassero e una disoccupazione ormai vicina al 15% portano il Paese a un passo dalla bancarotta. Nel maggio 2011 Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale Europea e Commissione Europea intervengono, grazie al cosiddetto Fondo salva Stati, con un prestito di 78 miliardi (il terzo più grande della storia del FMI), legati però all’attuazione di una politica di austerity fatta di tagli alla spesa, maggiore flessibilità sul lavoro, aumento dell’IVA, riduzione degli stipendi e delle pensioni, abolizione della tredicesima nel settore pubblico (le imprese private per lo più vi rinunciarono) e cancellazione di 5 giorni festivi. Lisbona varò un ferreo piano di risanamento dei conti per riportare il deficit sotto il 3%, come richiesto dal Patto di Stabilità e Crescita, entro il 2013. Il Portogallo non era il solo in quelle condizioni: anche Irlanda e Grecia si muovevano in bilico sul baratro.
La strategia adottata dal Governo portoghese, una volta uscito dalla crisi, ha comunque modernizzato il tessuto imprenditoriale, semplificato la burocrazia, aiutato le piccole e medie imprese, aumentando il volume delle esportazioni. Oggi il caso del Portogallo viene citato come esempio virtuoso da seguire dopo una crisi. Da sottolineare, come già per la Rivoluzione del ’74, che anche questa volta, nonostante le conseguenze durissime di questi provvedimenti sulla società portoghese e sugli individui, contrariamente a quanto accadde in Grecia, non vi furono ribellioni popolari o reazioni di massa. Un Paese che per 50 anni si era volontariamente chiuso su sé stesso scegliendo l’autarchia economica e una neutralità politica sui generis ora si riapre pian piano al mondo.
Nel 2018 l’austerity ha fine e i provvedimenti draconiani rientrano: si torna alle 35 ore lavorative settimanali; l’esportazione raggiunge livelli mai toccati prima; il turismo – che oggi garantisce il 13% del PIL – individua in Lisbona, nell’Algarve, ma anche a Porto e nella regione vinicola del Douro, nuove esche di richiamo internazionale. Il COVID frena momentaneamente la ripresa tra il 2020 e il 2022. Il turismo dà lavoro al 10% circa della popolazione.
Nel 2012, ancora alle prese con la crisi, l’allora Governo introdusse anche un’esenzione fiscale totale (fino al 2020; del 90% da allora) per i pensionati stranieri residenti per almeno 6 mesi all’anno in Portogallo. Fu una calamita a due volti, che attirò almeno 10 mila persone, rilanciando il settore immobiliare, ma creando anche situazioni socialmente impopolari e potenzialmente esplosive: famiglie che pagavano non più di 50 € mensili d’affitto cacciate dai loro appartamenti, che venivano – e tuttora vengono – ristrutturati e trasformati per essere o venduti a stranieri, o messi in affitto turistico anche a 100 € al giorno. Secondo uno studio (il Sole 24 Ore, 3 ottobre 2023), tra il 2012 e il 2021 il costo degli immobili e dell’alloggio è aumentato del 78% rispetto al 35% medio dell’UE.
Di fronte a questa situazione le esenzioni fiscali ai pensionati stranieri sono state abolite dal 1° gennaio di quest’anno (chi le ha ottenute le mantiene, per 10 anni, fino alla scadenza).
Intanto il settore turistico continua a segnare record. La ripresa post pandemia è un boom sotto gli occhi di tutti: oltre 30 milioni di ospiti, 77 milioni di pernottamenti nel 2023. I ricavi, pari a 25 miliardi, riflettono una crescita del 37% rispetto al 2019 (l’anno migliore in assoluto sino ad allora) e del 18,5% rispetto al 2022.
Il Post (8 febbraio 2024) sottolineava come, nel 2023, per la prima volta da quasi 50 anni, il Portogallo ha chiuso il bilancio in attivo, con una crescita di oltre 2 punti di PIL. Gli stessi parametri davano invece per l’Italia una diminuzione di 5,3 punti percentuali.
Eppure, nonostante questi dati rassicuranti, il Portogallo continua ad avere l’investimento pubblico netto più basso tra i 26 Paesi dell’UE, inferiore persino alla Grecia, alla Spagna e all’Italia. Il Governo Costa – in carica dal 2015 e fino al marzo di quest’anno – ha in parte mantenuto una forma di austerità finanziaria anche dopo la crisi finanziaria riducendo gli investimenti pubblici nelle infrastrutture, toccando anche i settori della socialità e della sanità. Detto altrimenti – faceva notare sempre il Post già il 27 marzo 2019 – “il Portogallo spende in investimenti meno di quanto sarebbe necessario per ripagare il deprezzamento dei beni pubblici, come il naturale degrado che colpisce strade ed edifici. «Stiamo consumando il nostro capitale perché non facciamo investimenti sufficienti a rimpiazzarlo», ha detto a una conferenza lo scorso febbraio Luis Moraes Sarmento, vicedirettore del dipartimento statistico della Banca centrale portoghese: «Significa che stiamo lasciando un fardello estremamente pesante alle generazioni che verranno in futuro»”.
Nell’immagine: un murale a Lisbona