Iran, i giovani anti regime contro l’escalation: “Non sarà Netanyahu a liberare il Paese”
La risposta militare israeliana punterebbe a destabilizzare Teheran. Ma gli attivisti di Donna, Vita, Libertà: “Il Paese lo cambiamo noi”
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La risposta militare israeliana punterebbe a destabilizzare Teheran. Ma gli attivisti di Donna, Vita, Libertà: “Il Paese lo cambiamo noi”
• – Redazione
Lo hanno scoperto studiando tenacemente un minuscolo verme cilindrico lungo 1 millimetro, C. elegans
• – Redazione
Il 7 ottobre di un anno fa (attacco terroristico di Hamas) come l’11 settembre americano; anniversari di tragedie e reazioni che promettono definitivi assestamenti, e che invece inaugurano viaggi verso possibili nuove tragedie
• – Aldo Sofia
Il dolore degli israeliani è invisibile agli occhi dei gazawi e il dolore dei gazawi è invisibile agli occhi degli israeliani. È la cecità che permette di proseguire la guerra
• – Redazione
Sempre più i difficoltà, anche se la resilienza e la reazione degli israeliani per ora evita il peggio
• – Sarah Parenzo
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• – Franco Cavani
Berna ha sempre avuto una posizione chiara sui diritti dei palestinesi, fino alla nomina a ministro degli esteri di Ignazio Cassis
• – Redazione
Lente di ingrandimento su fatti preoccupanti che non provocano la necessaria preoccupazione
• – Redazione
A Berna tutti i ministeri dovranno tagliare le spese, ma il budget per l'esercito non si tocca, anzi si arricchisce, mentre nuovi impegni vengono trasferiti sulle spalle Cantoni, molti dei quali già in difficoltà
• – Aldo Sofia
In realtà questo articolo non dovrebbe portare la mia firma ma quella di Oxfam. Perché ci limitiamo a riproporre parti dell’ultimo Rapporto dedicato, dalla meritoria...
• – Lelio Demichelis
La risposta militare israeliana punterebbe a destabilizzare Teheran. Ma gli attivisti di Donna, Vita, Libertà: “Il Paese lo cambiamo noi”
C’è sempre quella foto di Leila sulla scrivania di Farzam. Tieni i capelli sciolti, le mani a disegnare un cuore, come l’emoticon che si scambiano i ragazzini, davanti ai cancelli dell’università di Teheran. È l’ottobre 2022, le piazze iraniane sono in tumulto, un’intera generazione marcia per la democrazia. Dal nord curdo al sud belucio, giovani e studenti, tante donne in prima fila, e gli uomini a far da protezione. Farzam è lì, a ripensarci adesso sembra un altro Iran. Gaza è in guerra, il Libano è in guerra e il suo Paese aspetta con preoccupazione la rappresaglia israeliana. «Abbiamo pagato un prezzo altissimo per le proteste contro il Sistema, ma non sarà Netanyahu a portare in Iran la libertà che cerchiamo», ci dice al telefono. «Il cambiamento può venire solo dall’interno e in maniera pacifica, con l’aiuto di tutta la società».
Una settimana fa, il premier israeliano ha indirizzato un videomessaggio al «grande popolo persiano»: Israele è con voi, ha detto, la libertà «arriverà prima di quanto immaginiate» e «i nostri due Paesi saranno finalmente in pace», parole che sembravano evocare un possibile cambio di regime a suon di missili. Farzam, che ha 37 anni e fa l’artista, guarda in un’altra direzione: «Non nego che ci sia una minoranza tanto arrabbiata da giustificare un intervento armato, ma sono sicuro che la maggioranza degli iraniani non lo vuole».
Tra la guerra e l’oppressione, esiste ancora una terza via? La Repubblica Islamica è nata sulle macerie del lungo conflitto con l’Iraq, che negli anni Ottanta causò la morte di un milione di persone e migliaia di sfollati, mutilati, favorendo di fatto la svolta autoritaria del Khomeinismo. Anche molti di quelli che sono scesi in piazza con il movimento Donna, Vita, Libertà, e prima nel 2019 contro il caro benzina, hanno memoria di quel conflitto, erano bambini o adolescenti, ne parlano in famiglia, con i genitori e con i nonni. Tanti ricordano il sostegno dell’Occidente a Saddam Hussein.
Atena Daemi è una delle più note e determinate attiviste per i diritti umani, ex prigioniera politica – ha passato 8 anni in carcere – costretta all’esilio dopo le proteste per Mahsa Amini. «Per più di 45 anni, il popolo iraniano ha combattuto a mani vuote per ottenere libertà e giustizia contro un governo costruito sull’oppressione e la corruzione e armato fino ai denti», ha scritto in un intervento che sta facendo molto discutere, «ma le amare esperienze storiche hanno dimostrato che la guerra porta solo a più distruzione, uccisioni e sofferenze, e le sue principali vittime sono sempre i civili e le persone indifese». Gli attacchi militari «non solo non rovesciano i regimi repressivi, ma peggiorano la situazione della sicurezza, soprattutto quando a portali avanti è un governo criticato e condannato a livello internazionale per aver commesso crimini di guerra e genocidio».
Nel 2018 e poi ancora nel 2019, gli iraniani scesero in piazza contro la corruzione e le diseguaglianze, criticando gli investimenti militari all’estero, i soldi e le armi agli alleati regionali e ai proxies mentre il Paese chiedeva pane e lavoro — “Non la Siria, non il Libano, solo l’Iran”, scandivano i manifestanti. Yeganeh, 32 anni, architetta, era nei cortei allora e c’è tornata, dopo la morte di Mahsa Amini. «Sappiamo che l’Iran finanzia gruppi armati nella regione, ma Netanyahu non è il nostro Salvatore, nessun Paese straniero può cambiare l’Iran, tanto meno uno Stato che commette crimini a Gaza e in Libano», ragiona. La sera dell’attacco a Israele, in risposta alle uccisioni del capo politico di Hamas, Haniyeh, e del leader di Hezbollah, Nasrallah, a Teheran molti sono corsi a fare scorte di benzina. Sulle chat rimbalzano le minacce di un possibile raid contro le raffinerie e le infrastrutture del Paese, c’è la paura che il conflitto adesso divori anche quel poco di salari che gli iraniani sono riusciti a preservare, dopo anni di embargo e di sanzioni. In Israele c’è chi pensa che un attacco di questo tipo possa alimentare la rabbia verso il sistema.
«Le conseguenze sarebbero catastrofiche per la nostra economia. E se hai fame, non vai in piazza per la democrazia», dice Yeganeh. Scrive Amin Bozorgian, antropologo che vive a Parigi: le parole di Netanyahu «screditano la volontà degli iraniani» perché «minano l’idea che sia possibile un cambiamento dall’interno», un cambiamento pacifico.
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