La chimica che sottomette: ma che uomini siete?
Il coraggio di Gisèle Pelicot ha impedito di nascondere o minimizzare l'azione ignobile del marito e di decine di uomini. Ma quante Gisèle Pelicot saranno necessarie affinché qualcosa cambi?
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Il coraggio di Gisèle Pelicot ha impedito di nascondere o minimizzare l'azione ignobile del marito e di decine di uomini. Ma quante Gisèle Pelicot saranno necessarie affinché qualcosa cambi?
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Il coraggio di Gisèle Pelicot ha impedito di nascondere o minimizzare l'azione ignobile del marito e di decine di uomini. Ma quante Gisèle Pelicot saranno necessarie affinché qualcosa cambi?
Nonostante l’evidenza, in aula è stato insinuato il dubbio sulla sanità mentale della vittima, con la tesi che potesse trattarsi di un “gioco sessuale consensuale”. Un esempio lampante di come il sessismo sistemico continui a non riconoscere l’autodeterminazione femminile, perpetuando una cultura dello stupro. Le Monde, alla vigilia del processo, ha pubblicato parte degli interrogatori condotti su 51 uomini coinvolti, oltre al marito (leggi l’articolo di Giulia Siviero su Il Post). Questi uomini, in modo allarmante, non si percepiscono come stupratori, e giustificano i loro atti in quanto consentiti dal marito. Questo atteggiamento rivela una grave ignoranza sui concetti di consenso e rispetto, che le femministe chiedono di contrastare, sia a livello legale con il principio “sì è sì”, sia sul piano culturale, attraverso una maggiore educazione sessuale e affettiva a partire dalla prima infanzia, e una lotta contro gli stereotipi di genere.
Nel frattempo, Gisèle Pelicot, la persona vittima, ha chiesto che il processo fosse pubblico e che fossero resi disponibili alcuni dei video come prove. Inizialmente la richiesta è stata respinta dal presidente del tribunale per motivi di “pubblica decenza”, giudicando i contenuti dei video troppo scioccanti. Questa iniziale decisione sottolinea il paradosso di come si possa considerare più “offensiva” la visione di una violenza piuttosto che la violenza stessa. Gisèle ha dovuto combattere per dimostrare che nessuno dei 52 uomini coinvolti può sottrarsi alla responsabilità personale. “Perché nessuno mi ha salvata?” ha chiesto loro durante il processo, ancora incredula. Mostrandosi pubblicamente, Gisèle ha voluto trasferire il peso della vergogna – che spesso accompagna le sopravvissute – alle persone che l’hanno stuprata. Non è lei a doversi vergognare per ciò che ha subito: “La honte change de camp” – la vergogna cambia campo.
Questa vicenda, per quanto appaia eccezionale, non è isolata. Rappresenta un caso emblematico che tuttavia non si discosta dalle migliaia di abusi e stupri che avvengono quotidianamente nel mondo. L’UNICEF, nel 2017, ha stimato che circa 15 milioni di adolescenti (tra i 15 e 19 anni) siano stati costrette/i a rapporti sessuali forzati.
La vicenda di Avignone ci permette di focalizzare un aspetto sul quale si hanno pochissimi dati, ovvero l’uso di medicamenti (benzodiazepine, sonniferi, oppiacei, antistaminici), alcol e droghe per sottomettere la persona, generalmente conosciuta, e abusarne. La figlia della vittima, Caroline Darian, ha pubblicato un libro dal titolo eloquente “Et j’ai cessé de t’appeler Papa. Quand la soumission chimique frappe une famille” e ha lanciato la campagna #MendorsPas, stop à la soumission chimique, insieme alla deputata Sandrine Josso, anche lei drogata da un collega senatore.
Questo fenomeno non si limita all’uso di droghe da stupro nelle discoteche o ai tentativi di ubriacare giovanissime per abusarne. I dati statistici indicano come la maggioranza dei casi, le violenze sono inflitte da persone vicine alle persone vittime di violenza di genere: colleghi, amici, familiari. Anche nella sottomissione chimica mariti, partner e amici sono i principali autori: drogano le persone a loro vicine per abusare di loro. Un quadro allarmante che rivela quanto l’affermazione di potere nelle relazioni necessiti di controllo sulle donne, sfiancandone la volontà, distruggendone la credibilità.
Tutto ciò non ha nulla a che vedere con il sesso o il piacere, ma riguarda esclusivamente il potere. Un potere che si manifesta in una struttura patriarcale che utilizza ogni mezzo per affermarsi.
Ricordo il primo caso di stupro che seguii in un tribunale ticinese più di vent’anni fa: anche in quel caso si trattava di sottomissione chimica, perpetrata in un contesto medico. Facevo parte di un gruppo di femministe che a turno partecipavamo alle udienze, in solidarietà con la vittima e la sua famiglia, ma il sistema giudiziario fallì. L’imputato con la celebrazione del secondo processo guidato dal giudice Zali venne assolto, dopo la condanna a due anni riconosciuta in prima istanza, e chiese addirittura un importante risarcimento. La giustizia non fu in grado di interpretare correttamente i segnali simbolici di esercizio di potere esercitati sul corpo femminile, dimostrando una profonda ignoranza dei meccanismi di violenza di genere e degli stereotipi sessisti.
Si continua a incoraggiare le donne a denunciare, ma se non si impara a riconoscere i meccanismi alla base della violenza di genere, si finisce per colpevolizzare le vittime per quella stessa violenza subita.
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