La crisi dell’impero americano
Di Massimo Giannini, La Repubblica Nulla più delle prossime elezioni presidenziali certifica la crisi dell’Impero americano. Per spiegare il paradosso di quella che resta comunque...
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Di Massimo Giannini, La Repubblica Nulla più delle prossime elezioni presidenziali certifica la crisi dell’Impero americano. Per spiegare il paradosso di quella che resta comunque...
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• – Redazione
Nulla più delle prossime elezioni presidenziali certifica la crisi dell’Impero americano. Per spiegare il paradosso di quella che resta comunque la più forte superpotenza economica, tecnologica e bellica del pianeta c’è chi ha descritto il duello tra Biden e Trump come la sfida tra “un deficiente e un delinquente”. È un’immagine corriva e offensiva. Ma purtroppo rende drammaticamente l’idea. Cos’altro si può dire, dopo il penoso faccia a faccia televisivo tra i due candidati, durante il quale Sleepy Joe si è inceppato, perso e confuso in almeno quattro risposte, mentre The Donald nel silenzio cinico dei conduttori (a ognuno i suoi Bruno Vespa) ha mentito scandalosamente su tutto, dalla sua estraneità nell’assalto a Capitol Hill all’aborto che sfocia sempre nell’infanticidio? E cos’altro aggiungere, di fronte al vertice Nato in cui il Commander in Chief saluta Zelensky chiamandolo Putin, mentre il suo rivale si fa concedere dai giudici della Corte Suprema nominati da lui stesso un “Lodo Schifani” all’americana, che gli concede l’immunità sugli atti ufficiali compiuti nell’esercizio delle funzioni?
Più raffinato, ma non meno preoccupato, David Remnick descrive il voto di novembre come “un referendum sulla democrazia”. Ha ragione, il direttore del New Yorker. Ma se è davvero questa la posta in gioco delle prossime elezioni, allora anche il modo in cui ci si sta arrivando riflette il malessere di quello stesso sistema democratico. Uno stato patologico che dall’Atlantico si propaga in Occidente: democrazie di capi, senza più partiti. Certo, il virus ha incubato prima nel corpaccione repubblicano, dove un tycoon miliardario e mentitore seriale che ha già vinto nel 2016 potrebbe essere rieletto otto anni dopo, nonostante un quasi colpo di Stato, tre processi in corso e una condanna su 34 capi d’imputazione. Hanno avuto quattro anni di tempo, i sedicenti “moderati” del Grand Old Party che fu di Abramo Lincoln, per trovare un candidato più serio, più onesto e più spendibile del “delinquente” di Mar a Lago. Non ci sono riusciti, o forse non ci hanno neanche provato. Dunque avanti con Trump, con l’autarchia sciovinista del Make America Great Again e la muraglia razzista nel New Mexico, con i versacci all’Onu e alla Nato e gli abbracci a Putin e a Orban, con gli schiaffi all’Europa e gli sberleffi all’Ucraina.
Ma il morbo ha contaminato anche tra i Democratici. Se oggi il glorioso partito che fu di John Kennedy non riesce a convincere Biden al ritiro, allora il punto vero della questione lo coglie Ezra Klein. Di fronte ai senatori e ai membri del Congresso che ancora ripetono “che razza di partito è quello che volta le spalle al presidente a tre mesi dal voto”, l’editorialista del New York Timesribalta la domanda: “Che razza di partito è quello che non fa niente in un momento del genere? Volete vincere le elezioni oppure no?”. La strada di Biden verso l’ordalia di novembre è ormai un viottolo sempre più stretto e accidentato. Pesano gli appelli delle star di Hollywood, da George Clooney a Michael Douglas. Le telefonate dell’ex speaker della Camera Nancy Pelosi e le pressioni del leader del Senato Schuter e della governatrice del Michigan Whitmer. I silenzi di Barack Obama, che forse oggi tornerà a parlare in pubblico, e le paure dei finanziatori che hanno congelato 90 milioni di dollari, a partire da Abigail Disney. Pesano i sondaggi, soprattutto, come l’ultimo di Ipsos per Washington Post-Abc, secondo cui il 67% degli americani ritiene che Biden debba abbandonare. Ma il vecchio leone, confuso e ammaccato, è davvero un “testone”, come dice l’ex stratega di Obama, David Axelroad. Dunque, salvo sorprese alla convention di Chicago del 19-22 agosto, avanti con Stubborn Joe, con gli svarioni in conferenza stampa e gli scivoloni sulle scalette degli aerei, le pause sincopate e gli sguardi persi nel vuoto. Nonostante ci siano da gestire questioncine da niente, le furie belliche di Putin, le mire neo-imperiali di Xi, le vendette feroci di Netanyahu, lui solo sa “come battere Trump”. Lui che ha in effetti combattuto e vinto tante battaglie, ma come gli ha ricordato amaramente Clooney “ora non può vincere quella contro il tempo”. What else?
Ormai il problema – che vale nel Nuovo come nel Vecchio Continente – non è più solo la debolezza delle leadership, ma piuttosto quella dei partiti che le sostengono. Più che organismi vitali di una rappresentanza solida e reale, diffusa e collettiva, oggi sono diventati comitati elettorali e “strumenti a sostegno delle ambizioni personali”. Un tempo i partiti servivano anche a contrastare le derive personalistiche ed egomaniache dei leader. In America (l’ha ricordato qui Paolo Garimberti, due settimane fa) fu il gruppo dirigente dell’Elefantino a costringere Lyndon Johnson alla grande rinuncia del 1968, sotto le macerie della “sporca guerra” in Vietnam. Sul fronte opposto, fu il vertice dell’Asinello a obbligare Richard Nixon a gettare la spugna nel 1974, dopo il calvario del Watergate. Oggi né gli uni né gli altri sono in grado di imporre alternative credibili, o esercitare almeno una discreta moral suasion sull’uomo solo al comando.
Eccola, la malattia subdola delle democrazie che – mentre patiscono la secessione delle opinioni pubbliche – si snaturano in capocrazie. Il potere del capo è al tempo stesso causa ed effetto dei populismi, che a loro volta, incapaci di mantenere le promesse, generano soluzioni tecnocratiche e/o suggestioni autoritarie. Fallite anche queste, si riparte dall’inizio, in un circolo vizioso senza fine. In Italia è avvenuto e sta avvenendo esattamente questo: il collasso dei partiti di massa crollati sotto le macerie di Tangentopoli, l’avvento di Berlusconi Unto del Signore di Arcore e adesso anche grande aviatore a Malpensa, le parentesi di Monti e di Draghi, l’ubriacatura grillo-leghista e adesso l’avventura meloniana incardinata sulla torsione del Premierato Forte. In Europa agiscono le stesse dinamiche, sul modello delle destre orbaniste-lepeniste, anti-europeiste e filo-russe.
Cosa le sta arginando? In Gran Bretagna e soprattutto in Francia, quello che le democrazie hanno perduto in troppi anni di solitudine del cittadino globale, di proletarizzazione del ceto medio, di emarginazione sociale e di auto-esclusione politica: la mobilitazione popolare. Il ritorno di uno scopo e di un’idea alta della politica, che non è solo amministrazione, ma è anche passione e partecipazione. Stavolta, nella Ue, la missione collettiva e condivisa era battere le destre estreme, in nome di una Repubblica, di una Costituzione e di una certa idea dell’Unione, e forse anche della civiltà. Le persone sono andate alle urne in massa, e hanno votato “contro”. Questo non può bastare a costruire buoni governi, per far nascere i quali c’è sempre tanto e tanto da lavorare, e chi partecipa ai Fronti Popolari “si deve comportare da adulto” (come dice giustamente il social-riformista francese Raphael Glucksmann). Ma è sufficiente per impedire che ne nascano di infinitamente peggiori, e questo è già un gran risultato, purché poi si abbia il buon senso e la pazienza di ricostruire, uscendo dalle logiche da guerra civile che incubano solo nuova inciviltà.
Sarebbe importante che i democratici americani voltassero pagina, finché sono in tempo. Anche perché, di qui a novembre, continuare a discutere ogni giorno solo sulla salute mentale di Biden ci sta facendo perdere di vista cosa passa l’altro convento: un mezzo golpista, criminale condannato, presunto ladro di documenti segreti, riconosciuto colpevole di stupro in sede civile, convinto che la democrazia liberale sia un inutile intralcio al suo truce titanismo. C’è un asino enorme nel corridoio d’America: rimuoverlo conviene a loro, a noi, al mondo.
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