La realtà dei fatti e le fake news
Quando i «fatti», in nome di una loro solo presunta oggettività, diventano armi retoriche brandite da una parte contro l’altra
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Quando i «fatti», in nome di una loro solo presunta oggettività, diventano armi retoriche brandite da una parte contro l’altra
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Quando i «fatti», in nome di una loro solo presunta oggettività, diventano armi retoriche brandite da una parte contro l’altra
Un’espressione più di ogni altra ha condensato le paure di involuzione non solo sociale e politica ma, in senso più ampio, anche culturale ed epistemologica del decennio passato: “fake news”. Assieme ad altre come “post-verità”, divenne corrente a partire dal 2017, a seguito dell’elezione di Donald Trump, per esprimere l’operazione di manipolazione della realtà attribuita alla destra reazionaria e ai suoi media di riferimento. La sfera pubblica contemporanea – sempre più segnata dall’effetto dei social media e dal modo in cui hanno eroso il ruolo delle istituzioni tradizionali e professionalizzate del mondo dell’informazione, dando spazio a giornalisti e opinionisti fai-da-te – è stata additata come uno dei fattori decisivi nel montare di nuovi movimenti reazionari e negazionisti. Questa diagnosi è quasi sempre accompagnata dalla prognosi secondo cui, per combattere il nuovo oscurantismo nell’era della post-verità, sia necessario ristabilire l’inoppugnabilità dei fatti, del dato di realtà, di fronte a un dibattito sempre più dominato dalla polarizzazione delle opinioni.
Il panico morale rispetto all’erodersi di una realtà condivisa dalla popolazione a dispetto delle opinioni politiche ha alimentato una serie di nuove pratiche mediatiche volte esplicitamente a ristabilire la “realtà dei fatti” contro chi viene accusato di calpestare la verità. Ne è esempio la popolarità delle attività di “fact-checking” (controllo della veridicità dei fatti) promossa da news media – ad esempio in occasione di dibattiti tra politici – o da social media nel contesto delle loro attività di moderazione dei contenuti. Lo stesso vale per la moda recente della “open source intelligence”, divenuta particolarmente nota nella copertura sui social del conflitto in Ucraina, con esperti professionali o amatoriali che si occupano di incrociare varie fonti di informazione (ad esempio immagini amatoriali provenienti da una zona di conflitto con geo-localizzazione e informazioni di archivio) per verificare se la versione dei fatti fornita dagli attori in campo sia credibile. Ma si tratta di una risposta credibile alla disinformazione? O rischia piuttosto di riaffermare involontariamente le basi di legittimazione dei nuovi ciarlatani dell’era dei social?
È comprensibile che la proliferazione delle fonti di informazione, prodotta da Internet e dai social media, e al contempo l’erosione dell’autorità dei mezzi di informazione tradizionale – che il sociologo culturale Stuart Hall descriveva come “primary definers” (detentori del potere di definizione) della realtà – alimenti una domanda di nuove pratiche volte ad accertare la veridicità di quanto vediamo e leggiamo in Rete. Un vantaggio di Internet come strumento democratico è che consente ai cittadini di poter accedere facilmente alle fonti primarie. Tuttavia le tecnologie digitali aprono anche nuovi ambiti di disinformazione, in cui il rischio di manipolazione è evidente. Si pensi a come le app di intelligenza artificiale creano video che mettono in bocca a personaggi famosi frasi a piacimento o lingue che non parlano: non è che una delle prime manifestazioni del Deep fake, ossia forme di fake news che diventano sempre più difficili da distinguere dalla realtà.
Tuttavia, questo appello alla “verità inoppugnabile dei fatti” e alla “realtà oggettiva” come antidoto contro i ciarlatani rischia di ottenere l’effetto opposto di quello desiderato, cioè ricostruire una base di verità fattuale condivisa. Contrapponendo la verità alla falsità in un grande scontro manicheo si rischia di creare a nostra volta una mistificazione; negare che la stessa “verità oggettiva” (o le tante versioni di essa che vengono proposte) non è un dato di natura, ma piuttosto il prodotto di un processo conoscitivo e rappresentativo di una interpretazione della realtà.
La necessità di affermare il carattere interpretativo di ogni verità è stato uno degli insegnamenti più importanti del grande filosofo torinese Gianni Vattimo, mancato qualche mese fa. Seguendo la scorta di una famosa frase di Nietzsche, secondo cui “non ci sono fatti, solo interpretazioni” e il lavoro di Georg-Hans Gadamer in Verità e Metodo, Vattimo affermava che verità e interpretazione non sono in contraddizione, al contrario, “non si dà esperienza di verità se non come atto interpretativo”. Questo significa che bisogna andare oltre una visione della scienza e della conoscenza come descrizione della realtà, in base al modello della “corrispondenza”; al contrario la verità scaturisce solo da un atto di lettura che per sua natura è sempre situato in una comunità epistemica e in una tradizione linguistica e simbolica che non può mai essere assoluta. […]
Queste considerazioni rispetto al rapporto tra fatti e interpretazioni sono molto utili per fare i conti con la condizione sempre più preoccupante della sfera pubblica nell’era dei social media. Gran parte della “tossicità” che viene da più parti attribuita ai dibattiti che si svolgono sulle reti sociali può essere ricondotta esattamente al modo estremamente problematico in cui diversi attori mediatici e politici si ergono a soli depositari del potere di “definire i fatti”; o meglio, seguendo i termini di Vattimo, di attribuire ai fatti un’interpretazione univoca, nascondendo così come quelli che vengono chiamati fatti sono in realtà interpretazioni.
Le manifestazioni di questa assolutizzazione dei fatti sono molteplici. Basti pensare all’importanza attribuita a episodi specifici in alcuni conflitti armati recenti come il massacro di Bucha in Ucraina o il bombardamento dell’ospedale Al-Shifa nella Striscia di Gaza. In entrambi i casi l’accertamento dei fatti e lo scontro tra versioni alternative dei fatti – corredata ovviamente dalla partecipazione di diversi esponenti individuali e collettivi del mondo della “open source intelligence” – è andata ben oltre l’ambito di ricostruire in maniera esatta la dinamica degli eventi e le responsabilità. Piuttosto è assurta a un livello valutativo molto più alto: stabilire le responsabilità del conflitto armato e accertare chi in questo conflitto fosse l’attore da biasimare, spesso nel contesto di narrative a tinte fortemente moraliste e manichee, allergiche a qualsiasi dato di contesto.
C’è un fenomeno più generale che dovrebbe metterci ancora in guardia rispetto al rischio della assolutizzazione dei fatti. Troppo spesso si è parlato dei social media come di un nuovo spazio di informazione, segnato dall’emergere dei cosiddetti “citizen journalists” e grazie al quale la nostra conoscenza fattuale della realtà sarebbe cambiata. Tuttavia, i social media sono molto più uno spazio di opinione che di informazione. Essi hanno contribuito a quella che potremmo definire una “massificazione della produzione di opinione pubblica”, aprendo lo spazio a una miriade di soggetti più o meno amatoriali che oggi partecipano al dibattito esprimendo interpretazioni alternative della realtà.
Questo ci fa capire meglio come quotidianamente ogni tema, evento, notizia diventino l’oggetto di quelle che volgarmente vengono definite “polemichette”, cioè contese simboliche la cui faziosità politica è fin troppo evidente. Più propriamente, e riagganciandoci all’ermeneutica, potremmo descriverle come guerre interpretative, attraverso le quali diversi attori in campo “citano” eventi e tendenze in corso; spesso non tanto per illuminare il loro significato attraverso la propria lente interpretativa (il che sarebbe pienamente legittimo), ma piuttosto per una classica argomentazione pro domo sua: dimostrare la bontà della propria lente interpretativa alla luce di un fatto o “dato” specifico.
Questo suggerisce anche che pensare di risolvere la situazione creando nuovi reati di disinformazione, come sostenuto dal leader dei Verdi Angelo Bonelli con la sua proposta di istituzione del reato di negazionismo climatico, è la risposta sbagliata; proprio perché il confine tra fatti e interpretazioni, notizie e opinioni, è molto più labile di quello che viene comunemente accettato dall’establishment liberale nel contesto delle sue campagne anti-populiste e anti-fake news. Piuttosto la risposta adeguata a chi fornisce interpretazioni evidentemente faziose e in cattiva fede dovrebbe essere inchiodare gli autori alla responsabilità delle conseguenze politiche delle loro interpretazioni. Ma fare questo comporterebbe appunto superare l’illusione (suppostamente ideologica, in realtà iper-ideologica) che i fatti possano parlare da sé.
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