Di Lorenzo Vita, InsideOver.com
Per Erdogan il punto è sempre lo stesso: la Turchia, secondo il suo leader, è un Paese che ha dimostrato di sapere orientarsi e gestire crisi internazionali e transizioni geopolitiche. Lo ha fatto, a detta del presidente, con la guerra in Siria, accogliendo milioni di profughi. E questo cambiamento del mondo Erdogan rivendica di averlo capito da molto tempo: da prima che la guerra incombesse alle porte d’Europa e spaccasse definitivamente i rapporti tra Cremlino e Occidente. “Le Nazioni Unite possono prendere una decisione nella guerra Russia-Ucraina? Possono prendere una decisione su Ucraina e Russia? Non possono. Come mai? Perché è un membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite” spiega Erdogan. “Il mondo è più grande di cinque”, rilancia il “Sultano” rievocando la sua idea di modificare il Consiglio di Sicurezza, “ora stanno iniziando a dirlo loro stessi. Hanno cominciato a dire che questo non poteva più accadere. Arriveranno a ciò che diciamo noi”. Un tempo che il leader di Ankara aveva già segnalato nel 2021 al parlamento dell’Angola.
Per il presidente della Turchia, quello che arriva dall’Ucraina è un segnale molto eloquente che deve far capire a tutti i Paesi a cosa stiamo andando incontro: “Il sistema creato dall’Occidente per garantire la propria sicurezza e il proprio benessere sta crollando”. Parole durissime, riportate non a caso in prima battuta dall’agenzia russa Tass, e che confermano quello che da tempo è un mantra del presidente turco. E cioè che Ankara, nel sistema euro-atlantico, resta ma con una piena consapevolezza dei limiti e con una totale autonomia di pensiero.
Le parole del Sultano vanno lette sotto una duplice lente, come spesso accade a leader carismatici e che hanno accentrato intorno alla propria figura il potere del proprio Stato. Dal punto di vista interno, Erdogan sa che deve arrivare alle prossime elezioni del 2023 cercando di evitare una debâcle, e non è una prospettiva semplice. Le analisi sui flussi elettorali confermano una graduale discesa del consenso popolare dovuto in particolare a una situazione economica molto precaria cui si unisce l’annosa questione dei rifugiati siriani, giunti a milioni nel territorio turco. La popolazione appare stanca, così come la leadership di Erdogan. E questo, in vista del centenario della Repubblica che dovrebbe essere il momento del trionfo del “Reis”, non piace all’entourage del presidente che cerca in ogni modo di limitare i danni anche facendo ricorso a una politica estera basata su quello che è il punto centrale: il consenso interno. Tema fondamentale, dal momento che è anche attraverso questa chiave di lettura che è possibile leggere il fermo “no” di Ankara all’ingresso di Finlandia e Svezia nella Nato fino alla risoluzione dei rapporti con i curdi.
Un gioco di specchi e di propaganda che diventa essenziale per un Paese che storicamente, culturalmente ma anche strategicamente è diviso al suo interno da diverse anime e da una alterità col mondo occidentale di cui non si può non tenere conto: sia per l’avvicinamento a un appuntamento elettorale sia in generale per comprendere i lati profondi di questo Stato. Nazionalisti, panturchi, neo-ottomani, laici kemalisti, conservatori, moderati devono essere letti in una chiave diversa rispetto al mondo a cui si è abituati nell’Europa occidentale ma anche leggendo i Paesi mediorientali. E questa unicità turca si struttura anche nella politica estera.
Se questi sono i problemi interni, dal punto di vista strategico le parole di Erdogan non vanno liquidate come pura propaganda. La Turchia da diversi anni rappresenta la vera “spina nel fianco” dell’Alleanza Atlantica, con una continua ricerca di una strategia slegata dalle direttive di Washington e di Bruxelles. L’esempio più eclatante in questo senso è quello degli S-400 russi, acquistati ma mai attivati da Ankara. Acquisto che ha fatto infuriare pubblicamente gli Usa tanto da interrompere la partecipazione del Paese al programma F-35. A questo si aggiunge una politica estera estremamente eterogena e indipendente, che ha visto le forze turche impiegate in Libia, Caucaso e Siria, ha visto consolidare le relazioni con Mosca, spingere per colpire la posizione della Grecia all’interno dell’Alleanza, costruire una rete di interessi strategici in varie regioni del mondo sfruttando, e a volte anche minando, l’agenda delle potenze occidentali.
Una strada di autonomia che tuttavia non ha mai visto il serio pericolo di una Turchia fuori dalla Nato, e questo per un motivo semplice quanto estremamente complesso: Washington non può fare a meno di Ankara, quantomeno da un punto di vista militare. Lo ha spiegato lo stesso segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, che nel più recente vertice di Davos ha dovuto ammettere l’importanza del Paese di Erdogan dal punto di vista strategico. Rilevanza confermata in modo cristallino proprio dalla guerra in Ucraina, visto che il Mar Nero, il controllo del Bosforo e i traffici verso il Medio Oriente sono tutti dossier su cui la Turchia può avere in mano il gioco.
Del resto, è bastato il secco “no” di Erdogan alla richiesta di adesione di Finlandia e Svezia, da un lato per far capire che nessuno è in grado di far cambiare idea alla Sublime Porta senza dare qualcosa in cambio, dall’altro lato per fa riattivare le forze armate turche nel nord della Siria scatenando un’offensiva che ha già fatto allarmare Damasco e le potenze coinvolte. Il sistema euro-atlantico ha così costruito le premesse affinché Erdogan si senta non solo in diritto ma anche pienamente libero di esprimere la propria posizione anche in contrasto con i dettami Nato. E da questa intricata rete di interessi, nessuno riesce a limitare l’agenda di Erdogan.
Sulla libertà del Sultano andrebbe poi fatta un’altra analisi. Se infatti è vero che il presidente turco ha una piena libertà di azione, pur essendo alla fine un ottimo alleato di Washington e di Londra (visto ad esempio l’impiego di droni nella guerra in Ucraina), c’è anche da dire che Ankara ha solide alleanze e partnership con molti Paesi europei, mediterranei e con la stessa Russia. Fattori che devono far riflettere sull’importanza che queste continue affermazioni da parte della Sublime Porta siano traducibili come “sfoghi” di diversi segmenti profondi della diplomazia internazionale. Germania, Russia, alcuni Paesi dell’Europa orientale ma anche altri attori del panorama mediorientale e nordafricano, potrebbero avere interesse a fare in modo che un Paese ben inserito nella Nato si faccia portatore di istanze di “rottura” di alcuni schemi dati ormai per consolidati.