Di Anna Zafesova, La Stampa
Oleksandr Radchuk ha 13 anni, e non vede sua madre Shizhana da quasi due, dall’aprile del 2022, quando sono stati catturati dai militari russi, a Mariupol. La donna l’aveva abbracciato, piangendo. Poi, Shizhana era stata portata via dai soldati. «Mi avevano detto che sarebbe tornata in due, massimo quattro giorni. Non me l’hanno fatta nemmeno salutare». Oleksandr è stato portato all’ospedale di Donetsk, perché durante l’assedio di Mariupol era rimasto ferito a un occhio. I medici si erano impietositi e avevano messo la sua storia sui social, grazie ai quali sua nonna Lyudmila ha scoperto dove si trovava e, dopo due mesi di burocrazia, è riuscita a riportarlo a casa, in Ucraina.
Oleksandr è uno dei 19 mila minori ucraini che i militari russi hanno deportato in Russia, la cui identità è stata verificata dalle autorità di Kyiv. Soltanto 387 di loro sono stati riportati a casa, nell’ambito di negoziati condotti da diplomatici e operatori umanitari, oppure da familiari tenaci che sono riusciti a recuperarli andando in territorio nemico. Il New York Timesha documentato decine di storie di ragazzini ucraini, in una inchiesta durata diversi mesi, che racconta soltanto una frazione infinitesimale di questa tragedia. Sono i “bambini rubati” all’Ucraina, un crimine di guerra che è valso a Vladimir Putin e alla sua commissaria per i diritti dell’infanzia Maria Lvova-Belova una incriminazione al Tribunale penale internazionale dell’Aja. Un rapimento di massa, che all’inizio era sembrato troppo mostruoso e assurdo perfino a molti critici del Cremlino, e che invece ha raggiunto una scala tale da poter rappresentare un reato di genocidio, come ricorda il quotidiano americano.
Probabilmente i minori ucraini deportati in Russia sono molti di più: qualcuno è stato portato via insieme ai genitori (oppure fa parte di una famiglia passata dalla parte dell’invasore), altri sono rimasti orfani oppure hanno smarrito i parenti durante i bombardamenti e i combattimenti, altri ancora sono stati strappati ai loro cari con l’inganno. Come è accaduto a centinaia di bambini di Kherson, il capoluogo regionale rimasto sotto occupazione fino al novembre 2022: qualche settimana prima, le autorità russe avevano proposto alle famiglie di mandare i figli in “campi estivi” in Crimea. Alla Yatsenyuk ricorda che il 7 ottobre 2002 il porto fluviale di Kherson «era pieno di bambini, 500 o 600», imbarcati per una «gita di vacanza». Avrebbe recuperato il suo Danylo, 13 anni, sei mesi dopo, in un viaggio della speranza compiuto insieme ad altre madri e nonne nel territorio del nemico. La maggioranza dei suoi compagni di sventura erano già stati trasferiti altrove, in altre regioni della Russia oppure nei territori occupati dell’Ucraina: la “vacanza” era stata in realtà una deportazione, intenzionale e organizzata.
I volti di questi ragazzi – ripresi dai fotografi del New York Times in mezzo a casermoni di periferia di stampo ancora sovietico, oppure nei cortili delle case di campagna, mentre abbracciano le famiglie ritrovate, o fissano l’obietttivo con uno sguardo pieno di tensione – sono una testimonianza di questo piano per sottrarre all’Ucraina il suo futuro. Non solo erano stati portati via dal loro Paese, ma venivano sottoposti a un indottrinamento continuo: lezioni di russo e di storia russa, canto dell’inno della Federazione Russa, ore di propaganda governativa. «Ci dicevano che l’ucraino non esiste, che è una lingua inventata», racconta la 16enne Anastasia Chvylova. Alle loro famiglie venivano promessi soldi, case e borse di studio per restare. Chi si rifiutava veniva minacciato: «Dicevano che se tornavano gli ucraini mi avrebbero ucciso», è la testimonianza di Vladyslav Rudenko, 17 anni, mentre il 15enne Kostiantyn Ten riferisce che i suoi “educatori” russi sostenevano che l’Ucraina era ormai ridotta in macerie dalle bombe, che non c’era più nulla da mangiare. Con qualcuno ha funzionato: quando Ksenia Kholdina è andata a riportare a casa suo fratello deportato, ha scoperto che l’11enne Serhii ripeteva la propaganda russa sugli ucraini “nazisti cattivi”, e si rifiutava perfino di abbracciarla.
I bambini ucraini dovevano diventare russi, di nome e di fatto. Il 15enne Artyom Khtorov, rapito dai soldati russi insieme ai suoi compagni di scuola di Kupyansk, regione di Kharkiv, veniva costretto a indossare uniformi con la Z, e sottoposto a un addestramento militare, probabilmente per venire arruolato una volta maggiorenne. Alcuni ragazzi si sentivano addirittura dire che i loro genitori non li volevano più: Matvii Mezhevyii, 14 anni, era riuscito a telefonare al padre Yevhen da una colonia vicino a Mosca per dire che stava per venire dato in adozione, insieme alle due sorelle minori. Yevhen, ex militare ucraino reduce da due mesi di interrogatori e torture nelle prigioni russe, è riuscito a salvare i suoi figli. Altri sono stati meno fortunati: Matvii dice di aver avuto come compagno di prigionia Filip Holovnya, l’adolescente di Mariupol adottato da Maria Lvova-Belova e sfoggiato da lei pubblicamente come esempio di “rieducazione” riuscita di un ucraino. Di altri suoi amici, si sono perse le tracce: una legge voluta dal Cremlino facilita le adozioni di minori ucraini da parte delle famiglie russe, e una volta che i ragazzi vengono affidati ai nuovi “genitori” e cambiano nome, trovarli diventa difficile se non impossibile.
Nell’immagine: Maria Lvova-Belova nell’ottobre 2022 con un gruppo di bambini ucraini deportati da Mariupol