C’è stato un tempo – gli anni ’70 del secolo scorso – in cui le teorie della sinistra extraparlamentare italiana destavano grande curiosità anche nelle università estere. A Basilea, al seminario di filosofia politica, molti compagni mi chiedevano quale impatto avessero gli scritti di Alberto Asor Rosa, Mario Tronti e Antonio (Toni) Negri nel dibattito politico-filosofico, e quali fossero i motivi della loro costante e talvolta feroce polemica anti-Pci, un partito che allora sembrava fendere l’onda come una corazzata verso il governo del paese. Il Pci era Berlinguer, euro-comunismo, Gramsci, buona amministrazione delle regioni rosse (Emilia-Romagna, Toscana, Umbria), combattività sindacale, Cgil e Statuto dei lavoratori. Stupiva che le formazioni della sinistra radicale non avessero approvato la scelta di accordarsi con la Democrazia Cristiana sulla base del «compromesso storico»: una convergenza che finiva per emarginare, se non criminalizzare, le forze che si opponevano a tale strategia. Altri chiedevano quali fossero le divergenze teoriche nel campo dell’elaborazione marxista, in particolare verso la cosiddetta «scuola barese» che aveva nella De Donato la sua casa editrice di riferimento. Anche qui cercavo di spiegare che le divisioni riguardavano lo Stato e i suoi poteri, il cui controllo, per il Pci, andava raggiunto attraverso un percorso legalitario (elezioni democratiche) e non attraverso un’insurrezione di stampo leninista.
Aggiungevo poi che nel secondo dopoguerra le strade della sinistra si erano moltiplicate e ramificate, generando una galassia di gruppi, sigle, giornali e riviste, circoli e federazioni, spesso in lotta tra loro.
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L’interesse insomma era vivissimo, al punto di stimolare mille discussioni tra gli aderenti al movimento studentesco. Alcuni vollero risalire alle fonti, al pensiero di Raniero Panzieri, il «padre» dell’operaismo con i suoi Quaderni Rossi, fondati nel 1962. Panzieri, che pur provenendo dalla sinistra socialista (lombardiana), aveva avvertito l’esigenza di orientare lo sguardo su quanto avveniva nella grande fabbrica, in particolare alla Fiat di Torino. Il suo saggio sull’«uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo» scaturiva da una rilettura originale del Marx economista, lontana dalla «vulgata» dominante, imperniata sulla linea De Sanctis-Labriola-Gramsci. Vennero poi i saggi di Mario Tronti raccolti in volume sotto il titolo Operai e capitale e pubblicati da Einaudi nel 1966.
Ma la vera svolta si produsse drammaticamente dopo la strage di Piazza Fontana nel 1969. Negli anni successivi i contrasti assunsero le connotazioni di una guerra civile strisciante. Da un lato la destra neofascista, spalleggiata dai servizi segreti deviati e dalla criminalità organizzata; dall’altro l’universo della sinistra rivoluzionaria, con frange pronte ad impugnare le armi (e spesso vicine alle Brigate Rosse). Si trattava di gruppi minoritari, operanti nella clandestinità, che tuttavia facevano le prime pagine di giornali con agguati ai «servi del potere», con sequestri e rapine.
Di quegli «anni di piombo» è rimasto un ricordo insanguinato. Ma non tutto era riconducibile alla lotta armata. Anzi, la maggior parte dei giovani si tenne lontano da quella propaganda, dando vita ad iniziative di controcultura, alle radio libere, alle pratiche allegramente sovversive degli indiani metropolitani, al femminismo. L’apice fu raggiunto nel 1977, sull’onda delle contestazioni anti-Pci nella città-simbolo del buon governo comunista: Bologna.
Nel frattempo, il capitalismo italiano cambiava pelle. Nel Nord-Est gli insediamenti industriali storici cedevano il passo ad un pulviscolo di imprese a conduzione familiare; nelle campagne – sempre meno coltivate, spesso abbandonate – sorgevano in modo disordinato capannoni e stazioni di servizio, svincoli autostradali e luoghi anonimi. Negri, assieme ai compagni dei collettivi patavini, cercava di cogliere la trasformazione in atto, il declino della fabbrica fordista e con essa la figura dell’operaio-massa, protagonista di tante battaglie sindacali. «Il Veneto popolare nel quale crebbi – ricorderà Negri dal carcere di Rebibbia – non è una terra morbida – tutto era secco. Secca la brina che come vernice s’appiccicava ai giubbotti degli operai, il mattino, quando lunghissime file di biciclette, un enorme corteo di formiche bianche di gelo, giungeva a contribuire alla dispersa e primitiva accumulazione del capitale. Secco di polvere che si accumulava sui platani contadini nella canicola estiva» (Pipe-Line, 1983).
Ma ora qual era il profilo del soggetto che stava emergendo? In che modo avrebbe potuto raccogliere il testimone delle vecchie maestranze? La «missione» antagonistica veniva ora affidata al frutto di quella nuova fase di sviluppo, ossia all’«operaio sociale», categoria di subalterni composta da lavoratori precari, marginali, disoccupati, giovani, donne, studenti. Come già Marcuse aveva anticipato nel suo L’uomo a una dimensione, la speranza del cambiamento veniva riposta nel «sostrato dei reietti e degli stranieri, degli sfruttati e dei perseguitati di altre razze e di altri colori, dei disoccupati e degli inabili». Bastava tutto questo per scardinare il sistema di potere dominante, che poteva contare sull’appoggio del più forte partito comunista d’Occidente? Asor Rosa e Tronti ritennero di no, e infatti fecero ritorno alla casa del Padre. Negri no, continuò a condurre le sue campagne nei gruppi extraparlamentari, prima in Potere Operaio e poi tra i ranghi dell’Autonomia, non disdegnando l’azione violenta organizzata (come si legge nel dannunziano Il dominio e il sabotaggio, opuscolo del 1978). Un «marxismo lirico» secondo il sociologo Franco Ferrarotti.
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Arrestato il 7 aprile del 1979 sulla base del famoso (o famigerato) «teorema Calogero» in cui compariva anche l’accusa di portavoce delle Brigate Rosse nel caso Moro, Negri finì per scontare diversi anni di galera prima di rifugiarsi in Francia e iniziare colà una nuova fase della sua febbrile ricerca intellettuale. Nel laboratorio parigino, protetto dalla «dottrina Mitterrand», Negri riprese a ragionare sul «nuovo ordine della globalizzazione» con l’aiuto di Michael Hardt. Subito i suoi ponderosi saggi (Impero, Moltitudine, Comune, Assemblea) conobbero un’ampia diffusione nei movimenti no-global, sia in Europa che nelle due Americhe. Un’operosità prodigiosa, anche se riversata in una prosa non sempre limpida e comprensibile (chi scrive preferisce leggere Bobbio).
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Negri ha lasciato numerose testimonianze autobiografiche (da ultimo la trilogia Storia di un comunista). Tocca ora agli storici stilare un bilancio che vada oltre le antipatie e i pregiudizi, i dissensi e i fraintendimenti. I materiali non mancano, così come le prime opere di sintesi (Aldo Grandi su Potere Operaio, Guido Panvini sulla violenza politica nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta, Angelo Ventura sulla stagione del terrorismo in Veneto, Angelo Ventrone sulle illusioni di due generazioni, Roberto Colozza sul caso 7 aprile).
Certo colpisce che tutta quella grande mobilitazione di intellettuali dediti a studi rigorosi, tutto quell’agitarsi di idee e di propositi perlopiù velleitari abbia prodotto alla fine un risultato antitetico, una forza politica che nessuno si aspettava: la Lega, signora e padrona in tutto il Nord-Est, dalla Lombardia al Friuli Venezia-Giulia.
Nell’immagine: carri armati nelle strade di Bologna nel 1977