Lavorare meno? Sì, grazie!
Con il più recente libro di Serge Latouche un'ulteriore necessaria riflessione sul senso del lavoro e sulla “decrescita economica”
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Con il più recente libro di Serge Latouche un'ulteriore necessaria riflessione sul senso del lavoro e sulla “decrescita economica”
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Con il più recente libro di Serge Latouche un'ulteriore necessaria riflessione sul senso del lavoro e sulla “decrescita economica”
E ancora: nel 2000 il sociologo Domenico De Masi aveva scritto un libro dal titolo L’ozio creativo. Mentre l’economista John Maynard Keynes scriveva, nel 1930: “da qui a cento anni il livello di vita dei paesi in progresso sarà da quattro a otto volte superiore a quello odierno. E non sarebbe fuori luogo prendere in considerazione la possibilità di progressi anche superiori. […] E l’uomo si troverà di fronte al suo vero problema: come impiegare il suo tempo libero per vivere bene, piacevolmente e con saggezza. E quindi dovremo adoperarci per fare in modo che il poco lavoro che ancora rimarrà sia distribuito fra quanta più gente possibile. Turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore saranno più che sufficienti per risolvere il problema”. Una ingenuità? Sì, certo. Se poi andassimo ancora più indietro nel tempo, il genero di Marx, Paul Lafargue, aveva scritto nel suo Diritto all’ozio (ma diversamente dal Keynes successivo): “Non perdete la vostra vita cercando di guadagnarvela: vivete subito il vostro sogno invece di sognare la vostra vita. Abbasso la schiavitù salariata! Viva i modi di vita alternativi!”.
E dunque, il nostro rapporto con il lavoro (e la vita) è sicuramente complesso e troppo spesso dissociato e schizofrenico. Oggi Serge Latouche – il teorico francese della decrescita, o meglio della a-crescita – rilancia il tema in un suo nuovo, breve ma accattivante saggio, dal titolo più che esplicito: Lavorare meno, lavorare diversamente o non lavorare affatto (Bollati Boringhieri). E già nelle prime pagine ci ricorda che le “tre promesse della modernità avanzata – lavorare meno guadagnando sempre di più grazie alla società dell’abbondanza; lavorare tutti in modo sempre più piacevole grazie alla civiltà del divertimento; e, in futuro, non lavorare più grazie alle nuove tecnologie – rimangono del tutto mistificatorie finché si resta in un’economia capitalistica”.
Giusto e sacrosanto, ma è un processo sempre dimenticato anche dalle sinistre; perché il capitalismo – ma anche la tecnica, che Latouche purtroppo dimentica – sempre sfrutterà il lavoro (e la biosfera), sempre accrescerà (soprattutto in assenza di nostre reazioni, come accade da troppo tempo) la nostra produttività e il nostro pluslavoro, sempre automatizzerà non solo la produzione e il consumo, con macchine sempre più automatiche e che imparano da sole, arrivando alla I.A., ma soprattutto automatizzerà i nostri comportamenti per renderli sempre più funzionali/sussunti al funzionamento del sistema tecno-capitalista-megamacchina, noi dovendo prendere/incorporare il ritmo impostoci dalle macchine.
Invece, scrive Latouche, se entrassimo nel modello della decrescita, essa “potrebbe realizzare quelle promesse tradite, in quanto decrescita significa al tempo stesso una riduzione quantitativa e una trasformazione qualitativa del lavoro, in una prospettiva di abolizione del rapporto salariale”, rapporto salariale che è appunto una diversa forma di schiavitù. Perché una riduzione sostanziale del tempo di lavoro si realizza soltanto rompendo “il software economico/economicistico e l’ossessione della competitività, ovverossia con la logica della società della crescita”. Dunque, sarebbe urgente “cambiare le regole del gioco”. Perché “se un marziano atterrasse sulla terra e vedesse come viviamo, penserebbe giustamente che siamo dei pazzi e rimarrebbe stupefatto della stupidità con cui gli umani sono organizzati”, cioè con il solo scopo di accrescere produzione e consumo e produttività e quantità… e profitto privato.
Un rapporto complesso, quello nostro con il lavoro: da una parte desideriamo lavorare meno e avere più tempo libero – ed “è dalla rivoluzione industriale che le macchine, che dovevano liberarci dalla fatica, hanno in realtà aumentato i carichi di lavoro” – dall’altra non ci accorgiamo che oggi (l’abbiamo anzi accettata come una esigenza ineluttabile), digitalizzati in massa come siamo, non solo si sono ulteriormente intensificati i tempi e i ritmi di lavoro (nel taylorismo digitalizzato), ma anche il tempo libero è stato totalmente (e non da oggi) industrializzato e messo a profitto per sé dal capitale e noi tutti lavoriamo h 24 e sette giorni su sette producendo dati (a pluslavoro totale, cioè gratuitamente) per il Big Data – “e sicuramente viviamo più a lungo, ma senza avere mai avuto il tempo di vivere” e anzi il sistema ci impone di lavorare anche più a lungo nell’età.
Insomma, ci siamo fatti colonizzare l’immaginario e la coscienza dalla logica per cui il lavoro è un dovere – dimenticando che dovrebbe essere semmai un diritto dell’uomo – anzi la vera e unica vocazione dell’uomo, cioè un Beruf secondo Max Weber – e così chiudendoci con le nostre mani nella gabbia d’acciaio (oggi virtuale) del capitalismo (ancora Weber). Noi non comprendendo che “il salariato è la forma di lavoro dipendente funzionale all’impresa borghese industriale” (Latouche) e alla sua “ideologia lavorista fondata sul diritto di proprietà” (come teorizzato da John Locke); “che però schiavizza e abbrutisce il lavoratore”. Mentre ci possono – ci devono – essere altri modi di lavorare, di lavorare appunto diversamente, come ipotizzato un tempo dal socialismo utopistico e “dall’economia sociale e solidale attuale”; allo stesso tempo crescendo la richiesta di lavorare in modi meno stressanti – e diversi sono i tentativi di passare ad esempio a quattro giorni di lavoro a settimana – con un lavoro, soprattutto, “che contenga una parte di riflessione e di azione politica”.
Per questo, tuttavia, “è necessario resistere all’ingranaggio dell’accumulazione illimitata e non lasciarsi catturare dal ciclo infernale dei bisogni e del guadagno”. Un’ipotesi che il capitale vede ovviamente come assolutamente fuori dalla (sua) logica e quindi cerca in tutti i modi di impedirla e di impedire la demercificazione del lavoro (“che non può essere vinta senza la fuoriuscita dalla società lavorista, ovverossia dal dominio del mercato e del capitale”) – così come cerca in tutti i modi di farci dimenticare la crisi climatica, producendo il sostanziale fallimento della COP 28, appena conclusa.
Ma anche le sinistre, scrive Latouche, devono uscire dalla “profezia ricorrente per cui le macchine sono destinate a liberare l’uomo dalla servitù del lavoro”, devono cioè “uscire dal tecno-scientismo”, anch’esse invece da sempre sedotte dalle macchine senza capire il potere e la potenza della tecnica. E infatti Latouche giustamente ricorda come “per lo stesso Marx, l’abbondanza realizzata grazie allo sviluppo delle forze produttive avrebbe dovuto portare al passaggio al comunismo (certo attraverso una rivoluzione, ma che si sarebbe verificata inevitabilmente), mentre è accaduto e sta accadendo esattamente il contrario. Perché è impossibile lavorare diversamente in un sistema che rimane il medesimo. Anzi, il mercato totale “impone il paradigma del lavoro come merce a tutta la società, compresi i settori nei quali sembrava impossibile introdurlo, come la ricerca scientifica, la cultura, la sanità, l’educazione. Uscire dalla società lavorista significa allora, anzitutto, demercificare il lavoro”.
Certo, la decrescita sembra utopistica in questa “tarda modernità e nel quadro ossessivo di competitività del capitalismo finanziarizzato e globalizzato”. Eppure…
Nell’immagine: Serge Latouche
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