Le convulsioni non solo economiche dell’automobile elettrica
La superproduzione cinese, le esportazioni e i porti intasati, mentre l’UE vara programmi senza verificarne e pianificarne la realizzabilità: emblema di una società paranoica
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La superproduzione cinese, le esportazioni e i porti intasati, mentre l’UE vara programmi senza verificarne e pianificarne la realizzabilità: emblema di una società paranoica
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La superproduzione cinese, le esportazioni e i porti intasati, mentre l’UE vara programmi senza verificarne e pianificarne la realizzabilità: emblema di una società paranoica
La proibizione programmata dall’Unione europea (alla quale non potrebbe sottrarsi la Svizzera qualora varcasse appena i propri confini) delle automobili a benzina o a diesel entro il 2035, proibizione comunque fortemente contrastata (soprattutto dalla Germania industriale, e ne è ovvio il motivo), è stata ripresa negli scorsi giorni dalla Corte dei conti europea. La quale, manifestamente, non ci crede più e suona il campanello dell’altolà.
Con quale motivo? Perché “l’eliminazione progressiva di nuove auto termiche rischia di entrare in conflitto con la politica industriale e la sovranità economica dell’Unione europea e finisce per scontrarsi con i problemi di accettabilità sociale e finanziaria da parte del grand pubblico”. Questo sarebbe dunque il bilancio cui si è giunti dopo una serie di inchieste durata due anni e di vari rapporti.
Le riserve nei confronti di una delle leggi più ambiziose del Patto verde che dovrebbe portare il Vecchio continente alla neutralità carbonio entro il 2050 sono numerose. Tra le tante, con logica quasi tragicomica, la seguente: “L’Unione europea ha fallito nel ridurre, come auspicava, le emissioni di carbonio degli automezzi a motore termico perché la maggior parte di quelle attuali emettono sempre la stessa quantità di CO2 così come dodici anni fa”. E si insiste: “Essa non ha neppure la garanzia che i carburanti alternativi, come i biocarburanti, i carburanti di sintesi o l’idrogeno, che devono sostituire la benzina e il gasolio, siano attuabili su grande scala”.
Si giunge quindi a una conclusione che è pressoché disperata: solo i veicoli elettrici, a batteria, sembrano essere “una soluzione attuabile”. I giudici esprimono però tutto il loro pessimismo sulla strategia europea in materia di batterie elettriche. La scomparsa degli autoveicoli termici presuppone una grossa contropartita. E cioè: l’adozione massiccia di veicoli elettrici per il grande pubblico, la quale – ritiene la Corte- sembra compromessa dal prezzo che devono pagare sia l’industria automobilistica sia il consumatore stesso.
E qui ci si lamenta pure che l’industria europea delle batterie sia “a rimorchio rispetto ai suoi concorrenti”; soprattutto la Cina che domina il mercato. Partita persa, dunque? Forse si potrebbe rivedere il calendario della proibizione della vendita degli autoveicoli termici: sembra la gran pensata della Corte dei conti.
Ed è qui che emergono la frenastenia [debolezza o insufficienza mentale, ndr] o l’imbecillità e l’emblema di una società paranoica o perlomeno smarritasi.
In estrema sintesi: la Cina è in crisi di sovraccapacità o sovrapproduzione di automobili, tanto che alcuni costruttori(MG, BYD, Xpeng, Lynk, Omoda, Hongghi, ma anche la germanica BMW, la svedese Polestar, l’americana Tesla, queste ultime tutte assemblate in Cina) hanno lanciato da tempo una offensiva commerciale senza limiti (nel 2023: 4.2 milioni di auto esportate, aumento del 58 per cento in un solo anno). Un articolo pubblicato dal Financial Times (9 aprile) descriveva, in maniera impressionante, l’ingorgo creatosi in vari porti europei (soprattutto Anversa-Bruges, Zeebrugge, Bremerhaven) per lo sbarco di auto cinesi (valutate, solo a Anversa, tra 600 e un milione, in massima parte elettriche). L’aumentato afflusso di auto elettriche ha costretto gli operatori dei porti ad ampliare e moltiplicare le infrastrutture del porto.
La prontezza dei cinesi a far fronte alle necessità del momento è eccezionale. Costretti ad aggirare il capo di Buona-Speranza (Sudafrica) per evitare gli attacchi dei ribelli Houti nel mar Rosso, si sono affrettati a costruire navi-cargo capaci di trasportare 7.000 veicoli invece dei mille o duemila soliti. Dirigendosi poi direttamente verso il Belgio o la Germania, senza doverne scaricare una parte nel sud dell’Europa. L’obiettivo dichiarato dei cinesi rimane quello di conquistare almeno il 25 per cento del mercato europeo delle auto elettriche, anche se nei primi due mesi di questo 2024 hanno dovuto registrare un calo del 20 per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno (comunque sempre con 75.626 veicoli immessi sul mercato europeo). La minaccia di sanzioni doganali europee a causa dei sussidi concessi dal governo di Pechino ai costruttori nazionali potrebbe aggravare la situazione, ma le industrie europee, comprese quelle automobilistiche, frenano Bruxelles perché temono le ritorsioni di Pechino che farebbero crollare le loro vendite non solo in Cina.
Da tutto questo si può dedurre che l’Europa prende delle decisioni, anche positive, ma non sa preparare prima il terreno per poterle poi applicare. Che la Cina ha un’immediatezza di risposte, persino eccessiva, che è certamente frutto del suo tipo di governo, non democratico e quindi poco preoccupato, almeno a breve-medio termine, delle conseguenze negative, anche sociali, che può comportare un mercato forzato o stravolto, teso essenzialmente all’esportazione. Che la Cina (e sa alquanto di paradossale) – considerata l’enormità di sue auto elettriche ora parcheggiate nei porti dell’Europa del Nord – potrebbe risolvere due dei problemi sollevati dalla Corte dei conti europea: quello del costo dell’auto elettrica per il consumatore, risultando anche insuperabile dal punto di vista concorrenziale (coprendo il governo anche le eventuali perdite delle sue industrie) nonché quello della disponibilità di materie prime per la fabbricazione delle batterie e l’esperienza insieme all’innegabile progresso ottenuto nella fabbricazione delle batterie elettriche.
Nell’immagine: automobili elettriche cinesi in attesa nel porto di Bremerhaven
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