Solchi profondi. Volta-pagine storiche. Come “quell’11 settembre” 2001, che segnalò la vulnerabilità della declinante superpotenza americana, l’atto più clamoroso dello scontro di civiltà fra Occidente e mondo islamico, poi la presunzione americana di esportare in Medio Oriente con l’imperio delle armi la (presunta) nostra democrazia, così “il 7 ottobre” di un anno fa, con quello che viene definito “il primo pogrom” del dopoguerra, la ferocia dell’imprevisto massiccio atto terroristico di Hamas sconfinato al di là di un confine considerato chiuso ermeticamente, la mattanza della ritorsione israeliana su Gaza, decine di migliaia di morti civili, più quelli ancora sotto le macerie del 70 per cento delle abitazioni distrutte nei bombardamenti, la maggioranza relativa di morti minorenni (bambini e adolescenti), la fame utilizzata come arma di guerra, gli improvvisi spostamenti di centinaia di migliaia di profughi in una manciata di km quadrati, la Striscia che da “più grande prigione a cielo aperto” (chi sostiene che potesse diventare una Singapore del M.O. evidentemente non l’ha mai visitata) a “inferno a cielo aperto”. Così come l’11 settembre, il 7 ottobre non poteva preannunciare che altri disastri.
In un ventennio, la grade “armada occidentale” a guida americana spedita in Afghanistan per svuotare i santuari di Al Qaeda e spodestare gli “studenti coranici” terminata tre anni fa nel caos e nel ritorno dei Talebani a Kabul; quindi la sostanziale frammentazione dell’Iraq, l’intervento americano “boots on the ground” e anche dalla Mesopotamia l’umiliazione militare della ritirata; la nascita (fra Irak e Siria) dei tagliagola dell’Isis nata sotto l’impulso iniziale degli ufficiali orfani di Saddam; gli attentati dei jihadisti eterodiretti o dei “lupi solitari” in Europa (dal Bataclan parigino alla metropolitana di Bruxelles ai mercatini natalizi); per finire con l’accresciuta generale ostilità nei confronti dell’immigrazione irregolare anche perché soprattutto musulmana.
Parimenti, pure i binari dei conflitti regionali posati un anno fa in Medio Oriente portano a un futuro minacciosamente ignoto. Il nuovo ordine regionale pensato e promesso dallo scatenato Netanyahu, col reticente ma tuttora sostanziale aiuto in armi degli Stati Uniti, rischia di infilarsi e infilarci in un tunnel senza fine e senza via d’uscita, come quelle gallerie che a Gaza ‘ospitano’ ancora ostaggi israeliani (quanti ancora vivi non si sa). Un anno non è bastato a Israele per sradicare e vincere Hamas. Potrebbe accadere anche in Libano, paese-mosaico di religioni ed etnie, già invaso a sud da Tsahal senza troppo riguardo per i civili (vittime collaterali, sorry), nazione potenzialmente predisposta ad un’implosione caotica, terreno ideale per i resistenti di Hezbollah pur privati di una leadership decapitata dalla forza militare, di intelligence e dell’alta tecnologia dello Stato ebraico.
La Beirut martoriata da ordigni di ultima generazione ed enorme potenza, letteralmente sventrata in alcuni quartieri nella parte meridionale sciita, ricorda troppo la città ferita dagli scontri politici e inter-religiosi della metà degli anni Settanta. Ferita che potrebbe tragicamente riaprirsi. Monito inevitabile. Prospettiva del caos su caos. Poi, nemmeno è detto che la Siria alauita (sotto la dittatura pro-sciita di Bachar Assad) rimanga a lungo inibita dalla sua debolezza operativa dopo gli anni recenti della feroce guerra civile seguita ad un lampo di “primavera araba”. Quindi, per completare l’operazione “nuovo ordine regionale” Israele dovrebbe spingere le sue operazioni contro gli Houthi yemeniti, per nulla arrendevoli, come dimostrato dalla loro sopravvivenza all’attacco dei caccia sauditi di alcuni anni fa, con relativi massacri di cui ormai nessuno più si ricorda, nessuno più parla, e nessuno in Occidente ha mai denunciato.
Ma soprattutto, come indebolire definitivamente e debellare la teocrazia iraniana, principale minaccia e bersaglio di Israele, condiviso dai regimi sunniti, o meglio dalle loro leadership, popolari soprattutto per la miliardaria quotidiana manna petrolifera? Inimmaginabile l’invio di forze di terra israeliane (già molto occupate del resto su altri scenari di guerra) a milleseicento chilometri da casa. Quindi bombardamenti aerei e missilistici. Contro impianti petroliferi. Fors’anche contro i siti delle spedite sperimentazioni atomiche? Washington (per quel che ancora conta la sua opinione nei colloqui con l’imprevedibile alleato di Gerusalemme) è favorevole alla prima ipotesi, contrario, pare, alla seconda. Infine: quanto è affidabile il tacito calcolo israeliano secondo cui alcuni colpi ben assestati al sistema difensivo del regime indebolirebbe a tal punto il vertice del regime degli ayatollah da provocare nuove e decisive spallate di protesta popolare, e non, al contrario, un moto unitario di nazione ferita nel suo storico orgoglio persiano? Incognite. Pesanti.
Tanto più in un contesto internazionale in cui una svogliata diplomazia sembra totalmente maldisposta o incapace di immaginare, elaborare e imboccare strade che approdino a colloqui e negoziati. Come se le disgrazie delle guerre in corso, dall’Ucraina alle sponde meridionali del Mediterraneo, debbano inevitabilmente consumarsi fino in fondo, fino all’ultima vittima, all’ultimo respiro, sotto il fuoco delle armi. Scarsa volontà. Molta inutile retorica. Quindi nessuna alternativa al micidiale corpo a corpo attuale. Anche scarsa sensibilità per la sofferenza altrui. Che sembra appunto destinata a consumarsi, parimenti nella nostra sostanziale indifferenza. Indifferenza che se non è il male assoluto, è certo una malattia dell’anima (da ‘odiare’, diceva Gramsci). Di cui straripa il sentimento dei paesi in conflitto e soprattutto di chi li comanda. La negazione della sofferenza altrui. Che dovrebbe invece essere l’indispensabile presupposto per qualsiasi atto di consapevole disponibilità alla ragionevolezza.
Riflessione che oggi, a fronte di un quadro geopolitico funesto, può sembrare marziana. Ma il surrogato quale sarebbe? Cioè, con cosa sostituirla quando una razionalità umanistica appare anch’essa finita sotto i colpi e le macerie e i cadaveri di una disumana follia? E la perseveranza nel reciproco riconoscimento sembra la prima sconfitta?
Nell’immagine: buco nero