L’orrore del 7 ottobre e il mondo sconvolto
Siamo di fronte a un evento sismico prolungato che porta in superficie dinamiche di faglia profonde e fa presagire cambiamenti rilevanti
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Siamo di fronte a un evento sismico prolungato che porta in superficie dinamiche di faglia profonde e fa presagire cambiamenti rilevanti
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• – Redazione
Siamo di fronte a un evento sismico prolungato che porta in superficie dinamiche di faglia profonde e fa presagire cambiamenti rilevanti
L’anniversario dell’attacco feroce di Hamas contro Israele e contro la civiltà, il 7 ottobre 2023, si presta ad alcune riflessioni. Questo terribile evento pervade ancora di orrore le coscienze per la sua efferatezza, così come ci indigna nel profondo la tragedia delle migliaia di vittime civili palestinesi e la situazione insostenibile degli abitanti di Gaza. Gli sviluppi drammatici di questa guerra, e quelli che si preannunciano, rappresentano solo in parte il risultato di una crisi regionale poiché, come è emerso chiaramente in questo anno, essi hanno effetti globali. Siamo di fronte a un evento sismico prolungato che porta in superficie dinamiche di faglia profonde e fa presagire cambiamenti rilevanti nell’attuale sistema delle relazioni internazionali.
Non si tratta soltanto della possibilità di un conflitto diretto tra Israele e Iran, o dell’indebolimento del sistema di intese derivanti dagli accordi di Abramo, ovvero della instabilità e della accresciuta pericolosità delle rotte del Mar Rosso con i suoi impatti economici sui flussi mondiali del commercio. Siamo di fronte anche a conseguenze sistemiche.
Innanzitutto, questo conflitto ha serie ripercussioni sul sistema della governance globale, poiché evidenzia e conferma, con drammatica eloquenza, la crisi delle Nazioni Unite. Sono evidenti la paralisi del Consiglio di Sicurezza e l’inconcludenza delle istituzioni onusiane. Tuttavia i più recenti sviluppi in Libano segnano anche le gravissime difficoltà di funzionamento di Unifil e, in generale, delle missioni di peacekeeping, oramai obsolete nella loro concezione e inadeguate alla gravità della crisi in atto. Oggi queste missioni –Unifil compresa– hanno almeno tre debolezze: limitate risorse militari e assetti leggeri, a malapena sufficienti per l’autodifesa; assenza di una intelligence propria, fondamentale in un teatro bellico, in quanto le missioni dipendono dai singoli contingenti nazionali, che non amano la condivisione; una debole catena di comando poiché, nei fatti, i principali contingenti nazionali fanno riferimento ai vertici militari del proprio Paese e non quelli Onu.
Conseguenza della crisi dell’Organizzazione è il progressivo indebolimento del multilateralismo e il sempre più frequente ricorso a formati «minilaterali»: piccoli gruppi di Stati che danno vita a raggruppamenti temporanei ad hoc per affrontare singole crisi. Che si tratti di formati negoziali, come quello per la liberazione degli ostaggi israeliani, o di fora di consultazione più strutturati, questa è una conseguenza dell’appannamento del sistema onusiano, reso ancor più manifesto dalla guerra a Gaza.
La crisi ha anche evidenziato un importante paradosso della politica estera americana. Biden aveva tentato di concentrarsi sugli scenari ove più forte è la rivalità con la Cina, e in parte con la Russia, piuttosto che sul Medio Oriente. È emersa invece, in modo drammatico, la persistente centralità del Medio Oriente nelle dinamiche di sicurezza americane. Washington, suo malgrado, ha dovuto rafforzare la propria presenza militare nella regione, accrescere in qualità e quantità le forniture di armamenti a Israele e prendere atto di una realtà innegabile: malgrado il suo «pivot to Asia» e la competizione con la Cina gli Stati Uniti restano comunque ancorati al Medio Oriente. Vi è un ulteriore paradosso: gli sviluppi della crisi hanno di fatto impedito il completamento della cosiddetta «dottrina Biden» sulla sicurezza globale degli Stati Uniti. Si tratta di uno schema di alleanze regionali per far fronte a Cina, Russia e Iran basato, nel suo segmento mediorientale, sulla possibilità di un accordo tra Israele e Arabia Saudita in chiave anti-iraniana, garantito da Washington.
La guerra a Gaza e l’indisponibilità israeliana, almeno per ora, ad aperture sulla creazione di uno Stato palestinese, condizione saudita per un accordo, ha di fatto privato il sistema globale di sicurezza americano del suo segmento mediorientale. Inoltre, le stesse riluttanze israeliane ad assecondare le richieste americane di moderazione o di accogliere un piano per un cessate il fuoco a Gaza hanno indebolito l’immagine di Washington a livello internazionale. Ciò ha a sua volta favorito il progressivo passaggio a un sistema globale oligopolare in cui Cina e Russia, ma anche altri attori, reclamano uno spazio crescente ai danni degli Stati Uniti.
La guerra ha portato anche a un ruolo degli attori non statuali, soprattutto i «clienti» del regime iraniano, con un prevedibile aumento, in futuro, delle minacce asimmetriche, non solo nella regione. A seconda dell’andamento della guerra è prevedibile un aumento di atti terroristici. Questi sviluppi, tra gli altri, richiedono in prospettiva di ripensare e aggiornare gli strumenti della politica estera. Siamo infatti in quella «age of unpeace», l’età della «non pace», caratterizzata da crescente complessità e nuove tensioni, in cui i confini tra pace e conflitti sono sempre più labili e la realtà sempre più intricata. La guerra a Gaza ne è parte integrante e fulcro.
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