Morte di Sinwar, le conseguenze sull’Iran
La liquidazione del capo di Hamas ha un impatto relativo sul conflitto. È certamente un successo di immagine per Israele, da spendere per rafforzare il morale dell’opinione pubblica
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La liquidazione del capo di Hamas ha un impatto relativo sul conflitto. È certamente un successo di immagine per Israele, da spendere per rafforzare il morale dell’opinione pubblica
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Se lo scopo della guerra fosse ammazzare i capi nemici Israele avrebbe stravinto. L’ultimo scalpo eccellente esibito da Netanyahu appartiene all’architetto del 7 ottobre, Yahya Sinwar. Da quel giorno Israele era in caccia del feroce capo militare di Hamas, uno dei 1027 prigionieri palestinesi liberati dallo Stato ebraico nel 2011 in cambio del soldato Gilad Shalit.
Nei negoziati sugli ostaggi israeliani detenuti a Gaza dai miliziani islamisti gli emissari di Netanyahu avevano fatto capire ai mediatori qatarini, grandi finanziatori di Hamas con il benestare di Gerusalemme, che se avessero messo sul piatto la testa di Sinwar la trattativa si sarebbe svolta su un altro piano. E forse la guerra avrebbe preso una piega diversa. In teoria, Netanyahu avrebbe potuto dichiarare vittoria ed evitare di esporre il suo paese sui sette fronti attuali, in una partita apparentemente infinita nella quale lo Stato ebraico rischia la vita. Ma non era e non è questo l’obiettivo del premier, ammesso ne abbia uno diverso dal restare al suo posto.
Sicché oggi la liquidazione di Sinwar ha un impatto relativo sul conflitto. È certamente un successo di immagine per Israele, da spendere per rafforzare il morale dell’opinione pubblica, piuttosto scosso. Ma i suoi effetti operativi restano da valutare. Sia sul fronte di Gaza sia su quelli davvero decisivi, dal Libano all’Iran. Di sicuro la fine di Sinwar non è la fine di Hamas. Nella Striscia Israele prosegue il massacro che non discrimina fra terroristi e popolazione, con l’obiettivo di desertificare quel territorio martoriato, espellerne quanti più palestinesi possibile e riportarlo sotto il proprio controllo. Operazione che non promette di risolversi in qualche settimana.
Ma non è a Gaza che si misura la traiettoria del conflitto che sta sconvolgendo il Medio Oriente. Gerusalemme ha rovesciato tutti i suoi princìpi strategici. A cominciare dalla necessità di non logorarsi in guerre prolungate causa evidenti limiti demografici e territoriali. Imperativo tanto più cogente ora che la società israeliana esibisce la profondità delle faglie che ne dividono le varie tribù, dai sionisti laici ai religiosi, dagli arabi agli ultraortodossi. La sfida con l’Iran e i suoi clienti più (Hizbullah) o meno (Hamas, huti) stretti serve soprattutto a evitare la guerra civile. Anche solo a rinviarla.
Si è così generata una nevrosi bellica. Israele non può chiudere la partita perché deve vincerla per evitare che le riesploda in casa. Ma non può vincerla perché ha avviato contemporaneamente troppe sfide. Altre potrebbe inventarne. Una guerra fine a sé stessa finisce solo per esaurimento di chi la persegue o con una guerra regionale che può coinvolgere anche l’America.
La tattica del “molti nemici molto onore” non ha mai portato fortuna a nessuno. Sta invece costruendo intorno allo Stato ebraico un muro di ostilità quasi universale, ravvivando la fiamma mai spenta dell’antisemitismo, ma di tipo nuovo, particolarmente insidioso. Fiera del razzismo estendibile al di là degli ebrei.
Sul piano strategico, per Israele la crisi più grave riguarda il rapporto con gli Stati Uniti. La sua sicurezza dipende dalla protezione americana. Militare e politica. Gli apparati di Washington, che governano il paese in sede presidenziale vacante, stanno perdendo la pazienza. Risultato: nelle Forze armate israeliane cominciano a scarseggiare munizioni e armamenti di punta. Ma anche combattenti: il serbatoio dei riservisti non è infinito né di qualità rassicurante. Un terzo della popolazione è escluso (arabi) o si autoesclude (ultraortodossi) dal reclutamento. Ciò non contribuisce ad alzare il morale di chi combatte anche per i compatrioti che non possono o non vogliono farlo. Mentre incrudisce i rapporti fra comunità domestiche e incrina il morale delle Forze armate, i cui vertici si dividono pubblicamente sul da farsi, anche criticando il governo.
Nei prossimi giorni vedremo come Netanyahu vorrà spendere il successo ottenuto eliminando Sinwar. Il mondo attende di sapere dove e come Israele colpirà l’Iran. E soprattutto come il regime dei pasdaran reagirà. Nessuno dei due rivali può eliminare l’altro. Ma entrambi possono autoeliminarsi se perderanno il controllo di sé. Per non perdere la faccia rischiano di perdere tutto.
Nell’immagine: il leader di Hamas Yahya Sinwar
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