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Israele, la vendetta di Netanyahu

Dopo poco più di un anno al potere, il composito governo anti Netanyahu di Naftali Bennett e Yair Lapid ha deciso di gettare la spugna


Redazione
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Israele, la vendetta di Netanyahu
• 22 Giugno 2022 – Redazione
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Di Umberto De Giovannangeli, Globalist

Il “cambiamento” non è più al governo in Israele. Dopo poco più di un anno al potere, il composito governo anti Netanyahu di Naftali Bennett e Yair Lapid ha deciso di gettare la spugna, prima di farsi definitivamente sfiancare dallo stillicidio di abbandoni da parte di deputati della stessa maggioranza. Era da settimane infatti che la fragile maggioranza di governo (che comprende partiti di destra, centro, sinistra e anche il partito arabo Raam) era messa in crisi da frequenti abbandoni da parte di parlamentari. La settimana scorsa, ad esempio, ad andarsene è stato il deputato conservatore Nir Orbach, del partito di Bennett, in polemica contro il mancato rinnovo della legge che regola gli insediamenti israeliani nella West Bank. Dopo l’ultimo forfait – anch’esso di una deputata di Yamina, Idit Silman – l’alleanza era arrivata a contare solo sessanta seggi, equivalenti a quelli dell’opposizione. Le nuove elezioni – dati i tempi imposti dalla legge e le festività ebraiche, che partono a fine settembre – dovrebbero tenersi alla fine di ottobre: sarà la quinta volta che gli israeliani verranno chiamati al voto in meno di quattro anni. “Abbiamo riportato alla ribalta l’onestà e dimostrato che è possibile mettere da parte i dissensi per un obiettivo comune. Non ho mai accettato che considerazioni di partito avessero il sopravvento su quelle nazionali”, ha detto il premier dimissionario.

Negli ultimi sondaggi di opinione i partiti che orbitano attorno al Likud – fra cui i nazional-religiosi e gli ortodossi – raccolgono circa sessanta seggi sui 120 della Knesset. La loro sensazione è che sia adesso a portata di mano la costituzione di un governo omogeneo di destra. “Questo governo fallimentare è arrivato al capolinea ed è una grande notizia per milioni di cittadini israeliani”, esulta infatti Netanyahu, promettendo che insieme agli alleati formerà “un governo allargato guidato dal Likud che ridurrà le tasse, condurrà Israele verso successi enormi, inclusa l’estensione dell’area della pace. Un governo che restituirà l’orgoglio nazionale“, promette. Una promessa che sa di minaccia.

Annota in proposito su Haaretz Amos Harel, tra i più autorevoli analisti politici israeliani. “Il briefing a cui il Primo Ministro Naftali Bennett ha convocato i giornalisti politici lunedì si è rivelato una riunione di riepilogo e di addio. La prossima settimana Yair Lapid sarà il primo ministro del governo di transizione e Bennett sarà il premier supplente e “titolare del portafoglio Iran”, qualunque cosa significhi. Bennett completerà un anno e quasi due settimane di mandato, più di quanto previsto dall’opposizione, ma ovviamente molto meno di quanto sperasse.

Lo scioglimento della Knesset è una cattiva notizia, per una lunga serie di motivi. Il più importante è che ci si aspetta che una vittoria di Benjamin Netanyahu porti con sé un rinnovo della sua jihad contro il sistema giudiziario, e di fatto contro l’intero sistema democratico dello Stato. Se dovesse nascere un governo di stretta destra, con Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir come ministri anziani, Israele potrebbe presto essere trascinato in pericoli strategici, che lo porranno in rotta di collisione con l’amministrazione Biden e forse con la maggior parte della comunità internazionale.

Un’altra tornata elettorale, la quinta in due anni e mezzo, causerà ancora una volta un’immensa agitazione nei sistemi di governo israeliani. È difficile non provare compassione per i professionisti dei ministeri, che ancora una volta dovranno destreggiarsi in un mondo di piani e bilanci a breve termine, con un’attenzione minima da parte della leadership politica.

Tuttavia, bisogna tenere conto di un’altra possibilità, per quanto al momento sembrino scarse: Netanyahu può ancora chiedere un voto di sfiducia al governo, solo dopo il quale la Knesset si scioglierebbe. Se riuscirà a ottenere i voti, sarà Netanyahu a guidare il governo di transizione – e questa è tutta un’altra opera. C’è un’altra triste notizia: Il governo uscente è stato costituito attorno al coraggioso tentativo di unire i partiti di destra, centro e sinistra per rimuovere Netanyahu come primo ministro e fermare la paralisi politica che la sua situazione giuridica ha imposto all’intero sistema. Ma non meno importante è stato l’esperimento di portare un partito arabo, la Lista Araba Unita, nella coalizione di governo. Se anche questo esperimento venisse considerato un fallimento, il pessimismo potrebbe incombere sulla futura cooperazione ebraico-araba e sull’integrazione degli arabi nella leadership. A lungo termine, ciò è pericoloso anche per le relazioni tra le nazioni che vivono all’interno della Linea Verde…”.(…) Del “governo del cambiamento” faceva parte la leader del Labor, Mirav Michaeli, anch’ella ministra nell’esecutivo guidato da Naftali Bennett: “Non vi è dubbio che in questi anni, e ancor più con la crisi pandemica, quella che è emersa in tutta la sua drammatica incidenza nella vita di milioni di israeliani, è una irrisolta ‘questione sociale’ – annotava Michaeli in una nostra conversazione di qualche mese fa – La crisi pandemica ha messo in ginocchio centinaia di aziende, portato decine di migliaia di famiglie sotto la soglia di povertà. È il grande tema delle disuguaglianze sociali, all’ordine del giorno a livello globale, e non solo in Israele. A questo malessere siamo chiamati a dare risposte concrete, praticabili. Oggi, non in un futuro che per tanti israeliani è fatto solo di ombre e di una incertezza sempre più opprimente, insopportabile. La risposta che la destra israeliana ha dato non si discosta da quella di quell’universo sovranista di cui Trump, non a caso un modello per Netanyahu, è stato il faro, per fortuna spento il 3 novembre.

Molti si dimenticano che in Israele si è votato l’anno scorso anche per rinnovare le amministrazioni locali delle più importanti città. Ebbene, in diverse di esse, come Tel Aviv e Haifa, solo per citarne alcune, a vincere sono stati candidati progressisti, uomini e donne che quel malessere sociale lo hanno affrontato e, per quanto possibile, portato a soluzione. Hanno frequentato le periferie, hanno ricostruito un rapporto con le fasce più deboli della società, quelle che un tempo erano un pezzo forte dell’elettorato laburista. Questo rapporto è andato sempre più scemando, divenendo quasi inesistente. Ma io non mi rassegno a questo. Quello che mi impensierisce di più non è l’essere visti come quelli del ‘campo per la pace’ e basta, ma di essere percepiti come quelli delle “èlite benestanti”, dei salotti buoni di Tel Aviv. Da qui bisogna ripartire, da un recupero di credibilità tra i ceti socialmente più indifesi, promuovendo anche una nuova classe dirigente.

Sì lo so, ogni segretario appena eletto ripete questo mantra. Stavolta, però, non sarà così. E non perché io sia più coerente e tosta di quelli che mi hanno preceduto, ma perché o si rinnova o si muore. Lo dico con uno slogan che deve tradursi in politica: ‘Tra l’Israele delle start up, che costruisce il futuro, e l’Israele degli ultraortodossi, proiettai nel passato, la nostra scelta è chiara e netta. Quella di Netanyahu, no’”. So bene che lo spostamento a destra del paese non è qualcosa che nasce con quest’ultimo governo, ma che viene da lontano, e da cambiamenti strutturali, in primo luogo demografici e sociali, che la sinistra, e in primis il mio partito, non sono stati all’altezza di cogliere, come invece ha dimostrato di saper fare la destra. Non siamo stati all’altezza delle sfide del cambiamento. Di questo ebbi modo di discutere in uno dei nostri ultimi incontri, prima della sua scomparsa, con Shimon Peres. “Se non sai leggere i cambiamenti intervenuti, sei destinato alla marginalità o a vivere in un passato che non c’è più’, mi disse Shimon. Ed è una lezione che non dimenticherò mai”.

Non dubitiamo della sua memoria. Né, conoscendola personalmente, della sua onestà intellettuale. Resta il fatto, però, che il “governismo” sta logorando ciò che resta della sinistra israeliana. Il governo come fine e non come strumento. Buono per mantenere in vita una nomenclatura ma non per risollevare la china. E la schiena. Si può condizionare, un pochino, ma non incidere. Si può stare in un governo senza “governare”. E questo, alla fine, lo si paga. A caro prezzo.

Nell’immagine: Benjamin Netanyahu






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