Di Sami al-Ajrami, La Repubblica
RAFAH — Restiamo qui. Almeno fino a quando le condizioni ce lo permetteranno. La decisione è il risultato di lunghe discussioni affrontate con le 40 persone della nostra comunità che hanno partecipato alla
costruzione della tendopoli sulla spiaggia, nei pressi di Deir al-Balah, dove contiamo di spostarci quando l’operazione di terra dell’esercito israeliano si farà imminente. Lì è tutto pronto, ci sono le nostre tende, un bagno da campo, le scorte e abbiamo lasciato un guardiano a custodire tutti i nostri bene perché
la criminalità nelle ultime ore si è fatta sempre più pressante e i furti sono all’ordine del giorno.
Fino a quando i militari non entreranno a Rafah però la soluzione più sicura è restare in città perché qui abbiamo la possibilità di ricevere gli aiuti umanitari, trovare ancora del cibo al mercato, disporre di una minima assistenza medica e di medicine. Quando saremo sulla spiaggia saremo isolati e anche le comunicazioni e la connessione a internet, che per il mio lavoro da giornalista sono fondamentali, saranno impossibili. Nonostante qualcuno di noi volesse già trasferirsi, la maggioranza ha deciso di restare.
Abbiamo valutato che il tempo necessario per spostare tutte e 40 le persone è di circa tre ore in tutto. Così il timing diventerà fondamentale: capire in tempo quando l’invasione starà per avvenire ci permetterà forse di salvarci. Nella speranza, sempre più flebile, che questo incubo si possa evitare anche se l’andamento dei negoziati si fa sempre più difficile, con Hamas che rifiuta le condizioni dell’accordo e il governo e l’esercito israeliano che continuano a parlare dell’importanza dell’operazione.
A nulla valgono gli appelli della comunità internazionale, qui continuiamo a sentire che nessun luogo è sicuro. I morti dall’inizio della guerra a oggi sono stati 28.858 e soltanto nella giornata di ieri i bombardamenti, che continuano da Nord a Sud, hanno ucciso 85 persone. La qualità dell’acqua è sempre più compromessa, il cibo scarseggia al punto che dal Nord arrivano notizie di famiglie costrette a sfamare i bambini con i cereali per il bestiame. Persino le reti delle comunicazioni, già fiaccate dagli attacchi israeliani, non sono più in grado di sostenere la quantità di traffico telefonico e internet dell’oltre un milione di persone stipato quaggiù. Sono tre giorni che non riesco a parlare al telefono con mia madre.
La pressione che si vive qui a Rafah è al livello più alto che io abbia mai sperimentato all’interno della Striscia. Per questo al momento la mia unica ossessione è quella di riuscire a far uscire da Gaza le mie due figlie, Besan e Ruba, gemelle di 19 anni. Besan studiavano tecnologia dell’informazione, Ruba infermieristica, oggi sono due ragazze terrorizzate che piangono e tremano per ore dopo ogni bomba. Niente riesce più a calmarle. Sto chiedendo l’aiuto di tutti gli amici stranieri che mi sono fatto grazie al mio mestiere e sto cercando di trovare il denaro necessario per organizzare la loro partenza. Non penso ad altro, nessun genitore può accettare di vedere un figlio vivere in queste condizioni.
Nell’immagine: due fratellini feriti in un bombardamento a Rafah