Prigionieri della guerra
Con la Prima guerra mondiale si è affermata una cultura bellica che non risparmia niente e nessuno. E che arricchisce a dismisura la produzione di armi sempre più raffinate, sempre più devastanti
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Con la Prima guerra mondiale si è affermata una cultura bellica che non risparmia niente e nessuno. E che arricchisce a dismisura la produzione di armi sempre più raffinate, sempre più devastanti
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Con la Prima guerra mondiale si è affermata una cultura bellica che non risparmia niente e nessuno. E che arricchisce a dismisura la produzione di armi sempre più raffinate, sempre più devastanti
La corsa agli armamenti ha ripreso slancio, dopo che per anni era rimasta congelata nelle stanze degli stati maggiori. Si era persa la memoria persino della bomba atomica e del suo possibile uso, sia pure solo tattico. Ora anche le democrazie avvertono l’esigenza di rimettersi la tuta mimetica e di colmare le lacune dell’istruzione militare. Grandi boccate di ossigeno per l’industria bellica.
Ogni conflitto è anche un gigantesco laboratorio, il terreno ideale per sperimentare l’efficacia degli ultimi e supertecnologici sistemi d’arma, dai missili guidati dai satelliti ai droni organizzati in sciami. L’ingegno umano è sempre stato fertile nell’arte della guerra, come ben sapevano Machiavelli e Leonardo da Vinci. Ma ai tempi loro le battaglie erano brevi e non coinvolgevano massicciamente i civili, se non per i saccheggi e gli incendi che si lasciavano alle spalle. Tra Otto e Novecento lo scenario è mutato.
La data-spartiacque è la «grande guerra», conflagrazione senza precedenti per intensità, vastità, mobilitazione di risorse materiali e umane. Come ha osservato Eric J. Hobsbawm, «l’agosto 1914 è una delle più incontestabili “cesure naturali” della storia. Tale fu considerata a suo tempo, e come tale è sentita ancora oggi… se esistono date non puramente di comodo a fini di periodizzazione, l’agosto 1914 è una di esse. Essa segna, se non, come parve, la fine del mondo fatto da e per la borghesia, certo la fine del “lungo Ottocento…”». Analogo il giudizio di François Furet: «In Europa, la guerra del 1914 ha cambiato tutto; frontiere, regimi, stati d’animo, persino i modi di vita. Ha agito talmente in profondità sulla più brillante fra le civiltà moderne da non lasciare nulla d’immutato. Segna l’inizio del declino dell’Europa come centro della potenza mondiale, inaugurando al tempo stesso il feroce secolo che sta per finire, saturo della violenza suicida di nazioni e regimi».
Il quadriennio 14-18 aveva permesso di perfezionare strumenti di morte già collaudati (come la mitragliatrice) e di inventarne altri (sommergibili, dirigibili, cannoni sempre più potenti, infine i carri armati e i gas tossici). La repressione dei movimenti di rivolta nei domini coloniali sfuggiva poi ad ogni «jus in bello», ad ogni norma volta ad impedire l’imbarbarimento dello scontro. È significativo che una delle opere di maggior successo di Günter Grass (Il mio secolo, 1999), cento brevi racconti, uno per ogni anno del XX secolo, si apra con un riferimento alla rivolta anti-occidentale dei boxer in Cina: «Noi all’inizio eravamo in pochi, ma per fortuna disponevamo dei nuovi cannoncini da 5 cm a tiro rapido della Krupp. E gli americani collaudavano le loro mitragliatrici Maxim, proprio un aggeggio diabolico. Così Pechino fu conquistata rapidamente. […] I boxer odiavano gli stranieri, perché vendevano ai cinesi ogni genere di merce, gli inglesi di preferenza oppio. E così avvenne come il Kaiser aveva comandato: non si fecero prigionieri».
Nell’età degli imperi, dell’espansione coloniale, dei nazionalismi aggressivi, l’esaltazione della violenza cadde come un cerino acceso in un pagliaio.
Nel frattempo, la terminologia militaresca usciva dalle trincee per infiltrarsi nella politica, nelle istituzioni, nella cultura, intossicandole con «le belle idee per le quali si muore».
Quel vocabolario fiammeggiante, formatosi tra il fango e i reticolati della Grande Guerra, penetrò anche nelle frange radicali del movimento socialista, quelle bolsceviche. Stato e rivoluzione di Lenin trasuda metafore belliche: pensiero e azione militare-militante. Anche Gramsci farà largo uso di espressioni coniate nelle caserme come «guerra di posizione» e «guerra di movimento» per caratterizzare la strategia del neocostituito Partito comunista d’Italia.
Naturalmente furono gli stati maggiori degli eserciti a trarre da quell’immane carneficina moniti e lezioni per il futuro. In quest’opera di riflessione su quanto era avvenuto nel corso delle operazioni si distinse un generale italiano, Giulio Douhet (1869-1930). A suo giudizio l’arma che andava sviluppata e potenziata sopra di ogni altra era l’aviazione: assicurarsi il «dominio dei cieli» (questo il titolo del suo saggio pubblicato nel 1921) era fondamentale per piegare la resistenza del nemico: «L’arma aerea permette di portare, oltre l’esplosivo, il veleno chimico o batteriologico in un punto qualunque del territorio nemico, disseminando su tutto il paese avversario la morte e la distruzione.[…] I bersagli delle offese aeree saranno quindi, in genere, superfici di determinate estensioni sulle quali esistano fabbricati normali, abitazioni, stabilimenti ecc. ed una determinata popolazione. Per distruggere tali bersagli occorre impiegare i tre tipi di bombe: esplodenti, incendiarie e velenose, proporzionandole convenientemente. Le esplosive servono per produrre le prime rovine, le incendiarie per determinare i focolari di incendio, le velenose per impedire che gli incendi vengano domati dall’opera di alcuno».
Da quelle osservazioni è trascorso un secolo, un periodo in cui l’aeronautica ha conosciuto una diffusione e una capacità operativa sbalorditive: un primato di cui i generali vanno fieri, ma che ha comportato disastri spaventosi, cumuli di macerie e cataste di morti. Una moderna danza macabra nell’aria che ogni giorno va in scena sui nostri schermi domestici, con i suoi lampi e le sue colonne di fumo nerastro, lasciandoci attoniti e colmi di angoscia per la sorte dei tanti innocenti che vorrebbero solo vivere in pace. Ancora una volta ha vinto Ares, il dio greco della guerra, relegando il povero Kant in un angolo.
Articolo pubblicato da laRegione
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