Se i “Bleus” non vogliono Marine le Pen
I campioni della nazionale francese, che hanno subito il razzismo e la ghettizzazione sociale prima di diventare eroi del calcio, ripropongono la semplice verità: sport e politica non sono scindibili
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I campioni della nazionale francese, che hanno subito il razzismo e la ghettizzazione sociale prima di diventare eroi del calcio, ripropongono la semplice verità: sport e politica non sono scindibili
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I campioni della nazionale francese, che hanno subito il razzismo e la ghettizzazione sociale prima di diventare eroi del calcio, ripropongono la semplice verità: sport e politica non sono scindibili
Da padre in figlio; figlio d’arte. Markus, agile marcantonio ora attaccante dell’Inter, è stato fra i primi titolari dell’équipe di Deschamps ad esprimere preoccupazione per la netta vittoria elettorale dell’estrema destra alle europee di Marine le Pen, altra “figlia d’arte”, ma in campo politico. Andare alle urne per sbarrare la strada al Rassemblement National, è stato l’esplicito appello di Thuram Junior. Seguito dal suo compagno di reparto Ousmane Dembélé. E infine da Kylian Mbappé, il ‘re’, il più amato, il più osannato, e anche il più pagato. Che ha chiesto soprattutto ai giovani di “cambiare la storia con il voto” perché “gli estremisti sono alle porte” e aggiunge: “Dobbiamo identificarci con i valori della tolleranza, del rispetto, della diversità”. La Federazione francese si è dovuta arrendere. Aveva chiesto ai suoi convocati per l’Euro in Germania di tacere sui temi politici, e non l’hanno ascoltata; in più ha infine accettato di far aprire le urne al consolato francese più vicino al ritiro della nazionale per dare a Mbappé e compagni la possibilità di votare al primo turno del 30 giugno.
Forse quelli dei Bleus non saranno tutti voti contro la destra radicale. Ma tanto è bastato per rilanciare l’immarcescibile polemica sul rapporto fra sport e politica. Fra chi ritiene che il primo debba rimaner estraneo alla seconda e chi non ne vede proprio la possibilità e necessità; fra chi pensa che gli sportivi in materia dovrebbero tacere ma poi non spiega bene il perché; insomma, fra chi li vorrebbe politicamente ‘decerebrati’ e chi li preferisce ‘consapevoli’. Due fronti inconciliabili. Così, a dipendenza dei gusti, fa scandalo o scalda i cuori lo stesso Mbappé che un anno fa, quando un poliziotto uccise a sangue freddo un ragazzo maghrebino, Nahel, sui social scrisse “J’ai mal à ma France”, mi fa star male la mia Francia, e tuttavia chiese alle periferie di non scatenare la rabbia. Così come la polemica accompagnò in passato la protesta degli atleti di molte discipline sportive che all’inizio di ogni gara si inginocchiavano, al di là e al di qua dell’Atlantico, per protestare contro l’uccisione di stampo razzista dell’afro-americano George Floyd negli Stati Uniti del suprematista bianco Trump.
Contrapposizioni insensate. Nemmeno giustificate dalla Storia. Come se la competizione sportiva non sia nata già nell’antichità e non si sia poi sviluppata idealmente come confronto leale e pacifico fra individui, popoli e nazioni; come se non risultò memorabile e fantastico che l’atleta americano di colore Jesse Owens vincesse quattro medaglie d’oro di fronte a Hitler durante le Olimpiadi di Berlino, che nei propositi del Führer avrebbero dovuto invece esaltare la celebrata superiorità della razza ariana; come se Nelson Mandela non avesse voluto inaugurare la stagione dell’anti-apartheid e della riconciliazione nazionale e multietnica con uno storico match di rugby; come se di recente, in Gran Bretagna, la stella del Manchester, Markus Rashford, non ha zittito chi critica la “commistione politica e sport” denunciando politicamente la carenza di cibo per centinaia di migliaia di bambini poveri e finanziando mense scolastiche nell’Inghilterra del conservatorismo liberista.
Abbiano torto o ragione a denunciare il pericolo della destra radicale (la stessa che prima di essersi data una calmata per calcolo elettorale li ha trattati unicamente come feccia, socialmente irrecuperabili e non integrabili, addirittura espressione del fanatismo islamico), i vari Thuram, Dembélé, Mbappé hanno diritto di esprimersi in piena libertà. Alla faccia di chi, anche fra i commentatori sportivi, li considera soltanto dei “milionari viziati e incompetenti di politica”. Come a dire che il vero competente non può che essere uno come Vincent Bolloré, patrimonio personale di 9 miliardi di euro, che ha messo le mani su tv private e parte dei media francesi, ha sponsorizzato prima Sarkozy e oggi Zemmour insieme all’onda nera che punta a Matignon e all’Eliseo. Ma ci sono ricchi e ricchi. Su Mbappé si può ironizzare. Non sui Bolloré. Registi nemmeno occulti, anzi sfacciatissimi, dell’asse reazionario francese.
Nell’immagine: Lilian Thuram
Risposta di a.s. al commento di Gianma#88 su X
“Thuram non credo abbia subito ghettizzazione. È figlio di un calciatore professionista milionario ed è cresciuto nei quartieri chic italiani. Anche Mpabbé è figlio di sportivi. Thuram si espone come faceva suo padre. Mpabbé lo fa perché mediaticamente ti porta popolarità.”
È vero, ma nel caso di Thuram l’ho precisato parlando dell’impegno anti-razzista del padre ex professionista in Italia, di Mbappé no, ma penso che in ogni caso la loro reazione dipenda dal fatto che hanno potuto comunque vivere il razzismo di una parte non piccola della società francese, e soprattutto di quella che da anni segue i discorsi xenofobi, e che ha votato per il Rassemblement National. È evidente che i Mbappé e i Thuram si fanno interpreti di un disagio, e a volte una rabbia, di cui sono costantemente besaglio altri atleti che attraverso lo sport sono riusciti in un’integrazione altrimenti molto problematica, e il caso di un Benzema è esemplare. Il fatto di essere ricchi non risparmia infatti agli sportivi di colore un’ostilità verbale, cori vergognosi, e insulti che vediamo e registriamo spesso negli stadi di calcio, e non solo, come dimostra la vicenda della pallavolista italiana Egonu. Quando la nazionale francese vince, oppure come il Marocco ai mondiali dell’anno scorso, migliaia di giovani delle periferie francesi esultano e manifestano non tanto per il successo della squadra, ma soprattutto per un successo sportivo che attribuiscono a giovani delle seconde e terze generazioni che ce l’hanno fatta e attraverso i quali avvertono un (pur passeggero) riscatto della loro condizione.
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