Di Paolo Rumiz, La Repubblica
Il Parlamento europeo ha sconfessato le aperture di Ursula von der Leyen ai sovranisti come Orbán. Come dire che, con un atto clamoroso e inedito, l’Europa dei popoli boccia l’Europa dei governi. Era ora che accadesse. Da parte di Strasburgo è stato un atto d’orgoglio e una presa di distanza quasi doverosa prima delle elezioni di giugno. Se fosse ancora vivo, David Sassoli, il compianto presidente italiano del Parlamento federale, applaudirebbe. Tanto più dopo aver propiziato in tutti i modi l’elezione della presidente.
Negli ultimi mesi, in modo sempre più disinvolto, Ursula von der Leyen ha abbondato in concessioni ai governi sovranisti d’Europa, per garantirsi l’appoggio a un secondo mandato. Ormai lo sanno tutti che per questo uso spregiudicato del potere anche i piani alti del palazzo di Bruxelles non ne possono più di lei e di questa Europa usata come merce di scambio elettorale.
Un’operazione che, se non comporterà la vittoria totale delle destre, ne rafforzerà il potere di ricatto e renderà il federalismo europeo ancora più debole fra le potenze cinese e americana.
«Ursula che si fa gli affari suoi», così sussurrano i funzionari più fedeli all’idea di Europa dei padri fondatori. Ursula che ha lasciato morire l’Antitrust e ha il filo diretto con le corporazioni agroindustriali già gonfie di contributi Ue.
Ursula che punisce la Green Economy e ignora i piccoli produttori del biologico, che non ascolta i lavoratori ma gli imprenditori, come se le loro lobby non avessero già un potere enorme nella Ue.
A Bruxelles la chiamano “presidente americana”, anche in relazione al fatto che gli Usa non sono più quelli dello sbarco in Normandia, evento fondante della rinascita europea che a giugno celebra ottant’anni. Un’America in stato confusionale, che esporta più caos che democrazia, e poi lascia all’Europa le conseguenze di quel caos. Profughi, inflazione e quel che segue.
La presidente tedesca non è popolare nemmeno nel (suo) Partito popolare, e neanche Olaf Scholz, il cancelliere tedesco, pare sopporti questa signora colta a chattare con Big Pharma per orientare la scelta dei vaccini, non si capisce a che titolo.
Algida Ursula, non amata nemmeno in Germania, che ha nome sdrucciolo come Angela, ma ad Angela non somiglia per niente, e che ha imparato da Berlusconi a usare il potere anche per se stessa (e infatti, quando Silvio ci ha lasciati da privato cittadino, ha imposto le bandiere a mezz’asta al Palazzo d’Europa).
“Ursula va-t-en guerre”, così la chiamano nel palazzo per le sue dichiarazioni interventiste che hanno azzerato ogni capacità di mediazione diplomatica dell’Ue fra Ucraina e Russia e aperto la strada a un ruolo sempre più centrale della Turchia di Erdogan.
Forse qualcuno si ricorda di quando von der Leyen ha annunciato, non si capisce a nome di chi, che l’Ue avrebbe rotto i rapporti con la Cina, o di quando ha fatto sventolare la bandiera israeliana nel momento stesso in cui il suo emissario tentava di mediare a Gaza.
C’è chi non dimentica che Ursula ha sorvolato sulla pulizia etnica degli Armeni, cacciati dal Nagorno Karabakh con l’appoggio dichiarato della Turchia, e soprattutto che, quando settecento migranti sono naufragati al largo del Peloponneso, si è limitata a twittare un bel “mi dispiace” o qualcosa di simile, solo per poi indurire i respingimenti e restringere il diritto all’asilo contro ogni principio europeo, come richiesto dalle destre sovraniste.
Ho incontrato Ursula un anno fa in un teatro di Roma, alla commemorazione di Sassoli, morto un anno prima. Il caro David, che credeva nell’Europa dei popoli e insisteva a dirmi che la libertà si difende ogni giorno e che «non può esserci nessun Next generation plan se prima non c’è un European dream». Sassoli, che chiedeva «più politica e meno tecnocrazia» e seppe aprire il Parlamento anche ai poveri cristi.
Quando Ursula entrò nella sala, ebbi l’impressione che la temperatura si abbassasse di qualche grado. C’era in lei una compostezza raggelante.
Toccò anche a me parlare in quell’occasione, dopo Romano Prodi, suo predecessore. Lei stava seduta alla mia sinistra e la tenni d’occhio per studiarne le reazioni. Dissi che l’Europa aveva bisogno di un sogno, ma il sogno era morto. Lei rimase ferma, con la sua cartellina in mano, inespressiva.
C’era la guerra in Ucraina e chiesi al pubblico se l’Europa poteva permettersi di esistere senza la Russia. Non fece una piega. Osai dire che non potevamo allargarci ancora a Oriente senza chiedere ai nuovi entrati il rispetto dei diritti e delle minoranze, perché c’era un antico razzismo e antisemitismo da quelle parti. Non fece nessun commento.
Dissi che dovevamo mettere «più Europa nel nostro atlantismo». Non mutò espressione neanche allora. D’istinto, così democristiana nell’aspetto, mi parve più pericolosa dei destri più trinariciuti.
E quando, quello stesso giorno, la vidi andarsene sorridente a braccetto di Giorgia Meloni, eletta da poco presidente del Consiglio, ebbi la conferma che quella donna sarebbe stata capace di svendere l’Europa dei padri fondatori, pur di aumentare il suo potere.
Dall’atteggiamento delle due sembrava che fosse Ursula ad aver bisogno di Giorgia, non il contrario. Forse, pensai d’istinto, si preparava una melonizzazione dell’Europa. Fu un’impressione esatta. Un anno dopo, da Bruxelles è arrivato il via libera al peggio. Pesticidi, gasolio, riarmo, espulsioni di migranti, sospensione del trattato di Schengen e ritorno delle frontiere.
Nell’immagine: La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen il 12 marzo a Strasburgo