Il mio urlo di musulmano per la pace, il libro di Tahar Ben Jelloun
Pubblichiamo un capitolo del nuovo saggio dello scrittore. Appello a palestinesi e israeliani perché cessino la guerra
Filtra per rubrica
Filtra per autore/trice
Pubblichiamo un capitolo del nuovo saggio dello scrittore. Appello a palestinesi e israeliani perché cessino la guerra
• – Redazione
Il basilese Beat Jans ed il grigionese Jon Pult sono i due candidati scelti dal PS nazionale per la successione di Alain Berset in Consiglio federale
• – Redazione
Lo Stato di diritto, la sovranità popolare e la Costituzione, che traccia limiti oltre i quali non è lecito andare: sono i limiti dei diritti fondamentali e dell’assoluto rispetto delle minoranze e delle opinioni delle minoranze
• – Andrea Ghiringhelli
Il rischio che se ne vada Netanyahu ma non le sue idee
• – Aldo Sofia
Non deve illudere l’intervento “al miele” del capo del Cremlino al G20, il primo dall’inizio dall’aggressione all’Ucraina
• – Yurii Colombo
Ricordo di Alberto Flammer, scomparso a Verscio nei giorni scorsi all’età di 84 anni
• – Michele Ferrario
Una decisione da “voltamarsina”: appena cacciati dalla porta (2026) si tenta di far rientrare i Giochi dalla finestra nel 2030, dopo aver capito (in ritardo) che possono anche rendere
• – Libano Zanolari
Quando una manifestazione contro i tagli alla spesa pubblica viene definita come espressione irrazionale, da stadio, di una sinistra autolesionista, dogmatica e sognatrice
• – Alberto Cotti
Ricorre ogni 25 novembre la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Ben venga, se aiuta a non trascurare il fatto che pure tutti gli altri giorni sono giornate mondiali di violenza contro le donne
• – Federica Alziati
È arrivato il momento di una grande mobilitazione per l’«orgoglio maschile»: non in difesa (tardiva) delle donne stuprate, ma contro la violenza dei maschi, contro i maschi violenti
• – Paolo Di Stefano
Pubblichiamo un capitolo del nuovo saggio dello scrittore. Appello a palestinesi e israeliani perché cessino la guerra
Sono inorridito perché le immagini che ho visto hanno toccato nel profondo la mia umanità.
Credo che si possa resistere a un’occupazione, lottare contro la colonizzazione, ma non con questi atti di smisurata ferocia. Hamas è nemico non solo del popolo israeliano, ma anche di quello palestinese. Un nemico crudele e senza alcun senso della politica, manipolato da un Paese in cui le giovani oppositrici vengono impiccate per non aver indossato il velo.
Prendere ostaggi e usarli come strumento di ricatto, minacciandone l’esecuzione, non fa che esacerbare la rabbia che tutti noi proviamo.
Questa brutalità ha una lunga storia. Sicuramente comincia con l’occupazione e le umiliazioni subite da una gioventù senza futuro, rapidamente caduta nelle mani di un movimento islamista dipendente dalla benevolenza dell’Iran.
Dopo il massacro, qualunque sia il numero dei morti da una parte e dall’altra, la barbarie ha permeato il nostro immaginario e oggi è difficile credere che quegli uomini lo abbiano fatto per “liberare” un territorio. No, la guerra si combatte fra soldati. Non uccidendo civili innocenti.
No, non c’è ragione per quello che hanno fatto nelle case, nei campi, ovunque siano riusciti a catturare giovani che si stavano divertendo.
L’orrore è un fatto tutto umano. Un ministro del governo Netanyahu ha definito gli abitanti di Gaza “animali”. No, ci sono uomini senza coscienza, senza morale, senza umanità che hanno compiuto dei massacri, e poi c’è una popolazione che soffre, che non è né armata né barbara.
Non bisogna confondere Hamas con la popolazione (due milioni e mezzo di persone) che vive sotto occupazione e sotto embargo.
Continuo a ripeterlo, ma la mia voce è sola. I capi degli Stati arabi della regione rimangono in silenzio.
Nella mia solitudine, nella mia tristezza e vergogna di essere umano, nel mio disgusto per questa umanità alla quale mi rifiuto di appartenere, mi ribello, questa è una lotta che non fa onore alla loro causa. No agli applausi in certe capitali arabe. No a questa esplosione di sangue innocente. No alla cecità di chi sta tirando le fila di una tragedia in cui, prima o poi, sarà il popolo palestinese a pagare il conto più salato.
Ricorderemo questa tragedia come una ferita inferta a tutta l’umanità. Una ferita mai rimarginata, mai dimenticata.
Decapitare un uomo è qualcosa che va oltre l’orrore. Come descrivere quest’azione, la più ripugnante del mondo? Cosa c’è da dire? Le parole in questo caso non riescono a esprimere le cose. Fanno sciopero, non vogliono avere nulla a che fare con questi orrori. Le parole sono assenti e il linguaggio si trasforma in silenzio. Un bambino, indipendentemente dal colore della pelle o dalla religione (ma un bambino non ha ancora una religione) è un dono insostituibile. Ho visto madri in lutto che non avevano più lacrime da versare. Lo stesso succederà due settimane dopo a Gaza dove un uomo, circondato dai suoi tre figli morti sotto i bombardamenti dell’esercito israeliano, piange la sua solitudine e la sua tragedia.
Ho visto persone anziane, molto anziane, che avevano vissuto il nazismo e i suoi crimini. Sono stati ricacciati in un luogo che pensavano fosse sepolto per sempre.
Le immagini sono crudeli. Parlano, entrano nella nostra mente e non vogliono andarsene. Si depositano dentro di noi e abbiamo bisogno di tempo per liberarcene, per dimenticarle o archiviarle.
Mi sono rifiutato di vederle.
Gli amici me le mandano. Cerco di cancellarle dal telefono. Ma non ci riesco. Resistono. Vogliono dirmi soprattutto: «Guarda cosa hanno fatto i tuoi fratelli arabi ai bambini e agli anziani; guarda bene di cosa sono capaci; non voltare la faccia, non distogliere lo sguardo; guarda e assorbi queste immagini; sì, devi farle tue, perché sono opera dei tuoi fratelli arabi».
A un ebreo oggi non direi: guarda cosa ha fatto l’esercito israeliano. Non lo renderò responsabile, così come gli arabi non sono responsabili di ciò che ha fatto Hamas.
Queste immagini si accompagnano a urla e grida. Tale è la violenza che è come se venissero strappati, con un solo gesto, tutti i capelli di una donna anziana e il sangue le colasse sulla fronte e sul viso.
Guarda: questo sangue è stato versato con lo stesso coltello usato per tagliare una gola.
Sgozzare… È stata l’Isis, l’organizzazione dello “Stato Islamico”, a fare dello sgozzamento una prassi abituale per eliminare gli occidentali presi in ostaggio.
Tale pratica è un’aberrazione che va di pari passo con la ferocia di queste persone che hanno preso l’Islam a bandiera per commettere i peggiori crimini.
Un taglio, un colpo secco e finale, e il sangue sgorga come da una generosa fontana. È uno spettacolo progettato per catturare lo sguardo occidentale, per trafiggere l’occhio della civiltà.
Hanno abbandonato l’umanità. E l’umanità non li riconosce più. Non sono nemmeno animali. Perché gli animali non fanno quello che hanno fatto loro. Non abbiamo mai visto animali attaccare strategicamente altri animali solo per impedire loro di respirare.
Ogni vita equivale sempre a un’altra vita, qualunque sia la tua religione, il colore della tua pelle, la tua storia, la tua età, il tuo destino. Volere stabilire una gerarchia tra le vite è un segno di razzismo, che è ciò che fa l’estrema destra israeliana.
Che cosa sono, queste persone?
Continuo a chiedermelo.
E poi c’è il momento dei funerali. La televisione li riprende. Il dolore, un lutto impossibile, le lacrime e poi, come il rumore di un tuono, il ricordo di ciò che è accaduto.
Dopo le emozioni, dopo lo choc, ci prendiamo una pausa. Restiamo in silenzio. Cerchiamo di pensare. Rimanere calmi. Evitare le parole inutili. Affrontare i fatti. Tenerci stretti al presente. E rimanerci. Il presente è essenziale. Il passato e il futuro offuscano la prospettiva. Dobbiamo avere una visione chiara e senza pregiudizi della radice del male, delle origini della bestialità che si è impossessata di giovani che, non molto tempo fa, erano bambini. Ma bambini che hanno aperto gli occhi su una prigione a cielo aperto.
Un Paese che è stato trasformato in una prigione dove ogni movimento, ogni attività era ed è tuttora sotto il controllo di un esercito di occupazione.
Attenzione! Dare un contesto geografico e politico non significa giustificare o iniziare ad accettare. Assolutamente no. Cerco di mettere le cose al loro posto come fa un regista quando prepara la scena per la storia che intende raccontare.
Tahar Ben Jelloun, “L’urlo“, La nave di Teseo
Nell’immagine: Tahar Ben Jelloun
La storia tragica di una ragazza che a soli 17 anni svelò a Borsellino i segreti di Cosa Nostra
Se ti piace quello che facciamo dacci una mano a continuare anche nel 2024 – Clicca qui per sapere come Stampa / PdfDi Michele Serra, La Repubblica Stavo cercando il modo...