Di Cory Doctorow, Financial Times (versione italiana da Internazionale)
L’anno scorso ho coniato il termine enshittification, merdificazione, per descrivere il declino delle piattaforme digitali. Questa parolina oscena ha avuto molto successo: evidentemente riflette lo spirito del tempo. L’American dialect society l’ha scelta come parola dell’anno del 2023 (per questo, temo, sulla mia tomba ci sarà inevitabilmente l’emoji 💩).
Ma cos’è la merdificazione, e perché se n’è parlato tanto? È una mia teoria che spiega in che modo internet è stata colonizzata dalle piattaforme digitali; perché si stanno tutte degradando rapidamente e completamente; perché è un fatto rilevante e cosa possiamo fare per rimediare. Siamo nel pieno di una grande merdificazione, in cui i servizi su cui facciamo più affidamento si stanno trasformando in mucchi di merda. È frustrante, demoralizzante, perfino terrificante.
Credo che il concetto di merdificazione spieghi molto bene il fenomeno, portandoci lontano dalla sfera misteriosa delle “grandi forze della storia” e accompagnandoci nel mondo materiale, fatto di specifiche decisioni prese da persone in carne e ossa. Decisioni che possiamo ribaltare e persone di cui possiamo sapere i nomi e quanto sono pericolose.
La merdificazione dà un nome al problema e propone una soluzione. Non è solo un modo per dire che “le cose stanno peggiorando”, anche se, ovviamente, si può usarla in questo senso. Per essere più precisi, però, vediamo di che si tratta. È un processo in tre stadi: all’inizio, le piattaforme tecnologiche sono al servizio degli utenti; poi cominciano a maltrattare gli utenti per soddisfare le esigenze dei clienti aziendali; quindi maltrattano i clienti aziendali per tenersi tutto il guadagno. A quel punto c’è un quarto stadio: muoiono.
Prendiamo Facebook, per esempio. Ha origine da un sito nato per valutare il grado di scopabilità di chi studiava ad Harvard, e da allora è solo peggiorato. Quando è stato lanciato, era accessibile solo a chi era iscritto a un’università o a un liceo statunitense. Nel 2006 fu aperto al grande pubblico. Di fatto è stato come se i suoi creatori avessero detto: sì, lo sappiamo che state usando tutti MySpace (uno dei primi social network), ma il proprietario di MySpace è un miliardario che vi spia ogni minuto che manda il padreterno. Iscrivetevi a Facebook e noi non vi spieremo mai. Venite e diteci chi vi sta a cuore a questo mondo. Questo era il primo stadio. Facebook aveva delle risorse da spendere – la liquidità dei suoi investitori – e le ha spese per i suoi utenti finali, che, di conseguenza, si sono incatenati a Facebook. Come la maggior parte delle imprese tecnologiche, Facebook ha beneficiato dell’effetto rete, che si verifica quando un prodotto o un servizio migliorano con l’aumentare degli utenti. Vi siete iscritti a Facebook perché c’erano i vostri amici, poi altri l’hanno fatto perché c’eravate voi.
Facebook ha beneficiato anche di un alto costo di trasferimento, che consiste in tutto ciò a cui bisogna rinunciare se si abbandona un prodotto o un servizio. Nel caso di Facebook erano tutti gli amici che seguivate e che vi seguivano. In teoria, avreste potuto semplicemente andare tutti da un’altra parte; in pratica, eravate bloccati dal problema di agire collettivamente.
È difficile convincere tante persone a fare la stessa cosa nello stesso momento. Gli utenti di Facebook si tenevano in ostaggio a vicenda, incatenandosi l’un l’altro alla piattaforma. Facebook ha sfruttato questa situazione, riprendendosi quello che aveva dato agli utenti e ridistribuendolo a due gruppi di clienti aziendali: gli inserzionisti pubblicitari e gli editori. Agli inserzionisti ha detto: vi ricordate quando abbiamo raccontato a quei fessi che non li avremmo spiati? Ecco, invece li spiamo. E vi venderemo l’accesso ai loro dati, permettendovi di individuare il giusto target dei vostri annunci pubblicitari in modo granulare. Pubblicare i vostri annunci ci costa quattro soldi, e non baderemo a spese per fare in modo che quando pagate, qualcuno li veda.
Agli editori, invece, Facebook ha detto: vi ricordate quando abbiamo raccontato a quei fessi che gli avremmo mostrato solo le cose che volevano vedere? Come no. Caricate un breve estratto dal vostro sito, aggiungete un link e noi lo spareremo nelle pupille di gente che non l’ha mai chiesto. Vi offriamo gratis un imbuto di traffico che vi porterà milioni di utenti che potrete monetizzare a vostro piacimento. E così, anche gli inserzionisti e gli editori si sono incatenati alla piattaforma. Utenti, inserzionisti, editori: tutti incatenati. I tempi, quindi, erano maturi per il terzo stadio della merdificazione: togliere a tutti e dare agli azionisti di Facebook. Per gli utenti significava veder ridotta a dosi omeopatiche la quantità di contenuti provenienti dagli account seguiti e veder riempito il vuoto così creato con annunci pubblicitari e contenuti a pagamento degli editori. Per gli inserzionisti significava prezzi più cari e meno controlli antifrode, cioè pagare molto di più per annunci che avevano molte meno probabilità di essere visti. Per gli editori significava che gli algoritmi riducevano la diffusione dei loro post, a meno che non contenessero estratti sempre più grandi di testo. Come se non bastasse, Facebook ha cominciato a penalizzare gli editori che inserivano negli estratti i link ai loro siti, costringendoli di fatto a pubblicare post di testo integrale senza link.
In pratica, gli editori sono diventati fornitori di contenuti per Facebook, completamente dipendenti dalla piattaforma sia per la diffusione sia per la monetizzazione. Quando questi gruppi hanno provato ad alzare la voce, Facebook si è limitato a ripetere la lezione che ogni dirigente delle grandi aziende tecnologiche ha imparato al master in gestione d’impresa di Darth Vader: “Ho cambiato il nostro accordo. Pregate che non lo cambi ancora”.
Ora Facebook sta entrando nella fase più pericolosa della merdificazione. Vuole riprendersi tutto il surplus disponibile e lasciare agli utenti finali solo il minimo indispensabile per tenerli legati a vicenda (e per tenere i clienti aziendali legati agli utenti) senza lasciare niente sul tavolo, in modo che ogni centesimo di ricavo torni nelle tasche dei suoi azionisti. Ne abbiamo avuto una prova all’inizio di febbraio, quando l’azienda ha annunciato un dividendo trimestrale di 0,5 dollari per azione e un piano di riacquisto di azioni proprie per cinquanta miliardi di dollari. Il titolo si è impennato.
Ma è un equilibrio molto fragile, perché la linea tra “odio questo servizio, ma non mi decido a mollarlo” e “dio santo, perché ho aspettato tanto a mollarlo?” è sottilissima. Un’altra strage in diretta streaming e gli utenti scapperanno. A quel punto Facebook si accorgerà che l’effetto rete è una lama a doppio taglio. Se nessuno se ne va perché tutti gli altri hanno deciso di restare, quando tutti cominceranno ad andarsene non ci sarà più motivo di restare. Siamo allo stadio terminale della merdificazione.
Questa fase di solito è accompagnata dal panico, quello che gli addetti ai lavori chiamano eufemisticamente pivot, svolta. La svolta che hanno in mente è questo: in futuro tutti gli utenti di internet si trasformeranno in personaggi dei cartoni animati a bassa definizione, asessuati, senza gambe e sorvegliatissimi in un mondo virtuale chiamato metaverso.
Cory Doctorow è un giornalista e scrittore canadese. Si occupa di diritti digitali e sicurezza informatica. È consulente dell’Electronic Frontier Foundation, un’organizzazione non profit che difende i diritti digitali e la libertà d’espressione su internet. Questo articolo è l’adattamento di un discorso tenuto a gennaio per la Marshall McLuhan lecture all’ambasciata del Canada di Berlino