“Il coraggio? Non è il mio, è di coloro che testimoniano”
Intervista a Maurine Mercier, giornalista svizzera dell’anno, inviata d RTS in Ucraina
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Intervista a Maurine Mercier, giornalista svizzera dell’anno, inviata d RTS in Ucraina
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Intervista a Maurine Mercier, giornalista svizzera dell’anno, inviata d RTS in Ucraina
Lei è la voce che fa conoscere ed ascoltare le voci degli altri. Vincitrice di numerosi premi giornalistici, Maurine Mercier è stata appena nominata giornalista svizzera dell’anno 2023. Il premio le è stato assegnato per la sua attività dal fronte della guerra in Ucraina.
Maurine Mercier tende a evitare gli onori. Il suo pallino sono le “persone”, le “pepite” come le chiama lei. Andare a conoscerle, porgere il microfono e raccogliere le loro parole per diffonderle. Nata da madre canadese e padre vodese, questa empatica 41enne di Losanna non era destinata alla carriera di giornalista. Sognava di fare la fotografa. Tuttavia, dopo aver studiato relazioni internazionali a Ginevra, ha mosso i primi passi a La Télé, il canale locale della regione di Vaud-Friburgo. Nel 2012 è entrata a far parte di radio RTS di Losanna e nel 2015 della redazione esteri. Ma il richiamo del campo era troppo forte, così l’anno successivo si è si è trasferita a Tunisi per coprire come inviata il Nord Africa e in particolare la Libia, un Paese dilaniato dalla guerra civile e molto difficile da raggiungere. L’avventura è durata sei anni. Da lì il trasferimento a Kiev quando la Russia invase l’Ucraina il 24 febbraio 2022. In agosto ha deciso di stabilirsi a Kiev. Una mossa logica per questa reporter “integralista”, che va sempre dentro i fatti, e fino in fondo, che abbiamo raggiunzo telefonicamente ed ha risposto alle nostre domande con calore e franchezza, pochi giorni prima di recarsi nel Donbass, nel sud-est dell’Ucraina, dove infuriano i combattimenti.
– Il suo primo reportage di guerra risale al 2014 e già in Ucraina?
– Sì, nell’autoproclamata Repubblica di Donetsk, all’inizio della guerra. La violenza era già impressionante. Quindi, ho ben presente che, purtroppo, l’invasione russa non è iniziata un anno fa. Viene da molto più lontano. Questo dimostra anche la determinazione di Vladimir Putin e la complessità di questo conflitto.
– Come ha vissuto quella prima esperienza?
– Con la sensazione di trovarmi nel posto giusto. I combattimenti erano feroci, facevano paura, ma allora come oggi cerco sempre di mettere le cose in prospettiva. Io ho scelto di andare lì, mentre le persone che sono bloccate lì non possono scegliere nulla. Naturalmente mi sono anche sentita a disagio. All’epoca, i gruppi che che registravano tutti gli scontri mi dicevano: “Stai lontana dalla zona dell’aeroporto, è troppo pericolosa, non ci andiamo da mesi”. Ma io non riesco a star lontano da quel che brucia. Non mi piacciono le “zone nere”, ma è nostro dovere di giornalisti andare a documentarle.
Ciò che mi ha colpito di più sono state le persone intrappolate in questa guerra. Situazioni inestricabili, destini che vengono capovolti. È questo che mi commuove. Ecco perché faccio questo lavoro. Il pericolo passa in secondo piano rispetto alla sofferenza delle persone.
– Nove anni dopo, lei è tornato in Ucraina. Si ricorda cosa stava facendo il 24 febbraio 2022?
– Ero in Tunisia, da sei anni mi occupavo di cronaca in Nord Africa. Come tutti, quando ho sentito la notizia dell’invasione russa su larga scala, sono rimasta sbalordita. Mi sono ricordata di quelle nonne che avevo visto a Donetsk, già vittime di bombardamenti nel 2014. Ho pensato: “Ok, ora si tratta di tutta l’Ucraina”. Mi è bastata una frazione di secondo per sentire il bisogno di andarci il più velocemente possibile. Il mio datore di lavoro (RTS, ndr) era piuttosto riluttante a darmi il via libera per motivi di sicurezza; lo capivo benissimo, ma credo sinceramente che sia dovere del servizio pubblico andare lì. È un po’ come per gli operatori umanitari: non si fa questo lavoro per niente. Una volta sul suolo ucraino, ho negoziato per rimanere, rimanere, rimanere. Alla fine, tre mesi. Fino a maggio.
– Poi ha deciso di lasciare Tunisi e di stabilirsi definitivamente a Kiev. Perché lo ha fatto?
– Ho un carattere determinato, disposto ad andare sempre fino in fondo. Ho bisogno di vivere in un Paese che ritengo meriti una copertura. Mi mette a disagio, professionalmente e umanamente, venir paracadutata in una regione per dieci giorni come inviata speciale a poi andarrmene. L’ho fatto in passato, ma mi sono sempre sentita un po’ usurpatrice. Penso che si debbano fare le cose per bene e che, di conseguenza, come inviati non si possa essere ovunque. È stata una mia scelta e la mia redazione mi ha appoggiato. Così ho preso la mia auto con targa tunisina e sono andata a Kiev.
– Senza neanche un’esitazione, un velo di tristezza per ciò che lasciava di colpo?
– Nella mia mente, non ho lasciato il Nord Africa. È la mia casa. Quando penso di ricaricare le batterie, ovviamente mi viene in mente la Tunisia. È diventata la mia base. Ma quel giorno ho deciso, non ho salutato nessuno, ma semplicemente detto: “Ci vediamo dopo!” I miei amici tunisini, algerini e libici fanno parte della mia vita quotidiana. Mi scrivono ogni giorno – anche i miliziani libici – per assicurarsi che io stia bene in Ucraina. Sono persone eccezionali. Conoscono la guerra, sanno cos’è e perché mi trovo lì. Non mi sembra di essermene andata. Sono troppo legata a quella terra. Ho trascorso sei anni della mia vita lì. E sono stati probabilmente i migliori anni della mia carriera. Ma ora c’è da raccontare l’Ucraina.
– Cosa si prova a vivere in un Paese in guerra, ad avere una casa lì?
– Mi permette di capire meglio le persone. Capire cosa significa essere in costante allerta, essere potenzialmente nel posto sbagliato al momento sbagliato. Capire cosa significa invecchiare prematuramente. Vedo la differenza: due mesi sul posto vanno bene, ma io sono lì dentro da quasi un anno. È dura, certo. Ma, a differenza degli ucraini, io vivo comunque nella bambagia. Ho la libertà di andarmene di nuovo. Restare a lungo ti permette di capire le sfumature. Spesso abbiamo una visione molto caricaturale dei conflitti, con i buoni da una parte e i cattivi dall’altra. Le realtà sono più complesse. Gli ucraini mi hanno insegnato questa saggezza, a forza di stare con loro. Sono loro che a volte mettono in discussione il loro presidente, che evidenziano le zone d’ombra e i problemi. Questo mi dà l’opportunità di essere più equilibrata e giusta, anche se posso commettere degli errori.
– Si immaginava di vivere questa vita da bambina?
– No, assolutamente no. Con una madre del Quebec e un padre del Canton Vaud, i miei viaggi si limitavano a visitare la mia famiglia in Canada. Ma ricordo di aver visto una mostra del fotografo Sebastião Salgado al Musée de l’Elysée di Losanna. Attraverso il suo lavoro, quest’uomo mi ha fatto conoscere la realtà dei minatori brasiliani, di questi gruppi di persone che lavorano in condizioni spaventose. È questo che mi ha fatto venire voglia di interessarmi al mondo, di fare luce su situazioni non necessariamente disperate, ma complicate. Fare il giornalista non è stata per me una vocazione, ma essere ovunque, quello sì. E credo che abbiamo sempre una parte di responsabilità, in un modo o nell’altro, e che dobbiamo chiederci: “Cosa posso fare perché gli ucraini e i libici non debbano subire questo? Anche su scala molto piccola”. Questo mi è sempre stato a cuore.
– Perché questa propensione per “l’altrove”? Non ha mai pensato di raccontare storie di vita in Svizzera?
– Sì, certo, e l’ho anche fatto, all’inizio; mi piaceva fare la “cronaca locale”. Mi piace il lavoro sul campo e mi è piaciuto molto quando ho lavorato per i media regionali, ero sempre sul posto. Lì ho imparato tutto. Quello che non mi è piaciuto in seguito è stato lavorare in una redazione, bloccata su una sedia. Nella redazione esteri ho preso atto progressivamente che si trattava spesso di una sorta di lavoro d’ufficio, che naturalmente faceva per me. Durante l’ondata di attentati a Parigi nel 2015, i media stavano teorizzando sullo Stato Islamico, sul mondo musulmano, utilizzando specialisti. Ho pensato che sarebbe stata una buona idea dare voce ai musulmani piuttosto che affrontare l’argomento dalla sedia del nostro ufficio e parlare per loro. Per questo nel 2016 mi sono trasferito in Nord Africa. Il campo è la realtà, non è una cosa da vecchia scuola, sono solo fatti.
– Cosa la attrae dei terreni difficili?
– Prima di cercare la guerra, cerco il lavoro sul campo. Coprire la Libia mi sembrava essenziale. Il Paese dista appena 350 chilometri dalle coste europee e nessuno ne parlava, perché i pochi giornalisti che erano lì hanno dovuto lasciare il Paese viste le precarie condizioni di sicurezza. Ho fatto fatica ad accettare che i media si siano occupati della Primavera araba e poi non ne abbiano seguito gli sviluppi, dimenticando le responsabilità europee e francesi per la caduta di Gheddafi; che abbiano riferito sui drammi della migrazione senza continuare ad interrogarsi sulle sue ragioni. Per quanto riguarda la guerra in Ucraina, ho sbagliato completamente le mie previsioni. Si continua a parlarne, certo, ma continuo a pensare che la gente si stancherà. I media sono bulimici. L’Ucraina è stata quasi troppo raccontata e presto nessuno vorrà più parlarne, perché si pensa che sia troppo triste e che vada avanti da troppo tempo. Sono questi momenti che mi interessano. Non l’attualità, dove è facile piazzare e vendere storie. Ecco perché ho preso un impegno a lungo termine con l’Ucraina. Sulla base dello stesso principio, nel 2016 sono arrivata in Nord Africa per cercare di interessare gli ascoltatori a queste realtà. Spesso le redazioni hanno gli occhi puntati sulle agende dei telegiornali e pensano che la Tunisia o la Libia non siano più nella mente degli ascoltatori, dei lettori o dei telespettatori. Questo non è vero. Penso che se si fa un buon lavoro giornalistico, le persone sono interessate. Lo difendo fermamente, non dobbiamo prendere le persone per deficienti. Al contrario, bisogna essere all’altezza delle loro aspettative.
– Nell’aprile del 2022, uno dei suoi reportage a Butcha ha lasciato un segno indelebile. Ekaterina (non è il suo vero nome), 38 anni, vi ha raccontato nei dettagli gli stupri subiti davanti alla figlia di 13 anni. Una testimonianza di estrema durezza.
– Sono rimasta lì per circa dieci giorni. Volevo arrivare il prima possibile, ma soprattutto volevo rimanere il più a lungo possibile dopo la liberazione della città. Dopo che le autorità ucraine hanno aperto la città alla stampa, Butcha si è trasformata per due giorni in una sorta di Disneyland dell’orrore. Centinaia di giornalisti in collegamento, stavano davanti alle fosse comuni, per lo più senza cercare di capire. Mi pongo molte domande sul nostro mondo mediatico quando assisto a questo tipo di scene. Io volevo dedicare del tempo alle persone che si trovavano in uno stato di trauma spaventoso. Con la mia traduttrice abbiamo incontrato Ekaterina. Questa donna era stata violentata per giorni e giorni dai soldati russi davanti a sua figlia, sotto la minaccia delle armi. Non aveva ancora avuto la possibilità di essere visitata da un medico, né aveva potuto ancora rivolgersi alle autorità per sporgere denuncia. Ci ha raccontato tutto nei dettagli e, al termine delle tre ore di agonia, si è spogliata per permettermi di fotografare i segni sul suo corpo. Aveva paura che le autorità non le avrebbero creduto quando avesse sporto denuncia. È stato incredibilmente violento. Sono momenti che non si dimenticano.
– Lei ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti per questo reportage (Premio Bayeux per i corrispondenti di guerra e Premio di giornalismo dei media pubblici francofoni) e per il suo lavoro sul campo (Premio Jean Dumur). Come vive questi riconoscimenti?
– È molto complicato. Mi fanno piacere, certo, perché testimoniano di un ascolto, e questa donna di Butcha, così come le voci raccolte in Libia, era lì per essere ascoltata. Ma un riconoscimento andrebbe alla loro testimonianza. Non si tratta di falsa umiltà. Il coraggio non è mio, ma delle persone che testimoniano. Un giornalista è un messaggero, non un attore. Non siamo lì per parlare di noi stessi. I premi sono spesso dotati di fondi e io do tutti i soldi che ricevo alle persone che testimoniano. L’ho fatto per questa donna di Butcha, ma anche per il Premio della Stampa Svizzera che ho ricevuto nel 2018, un reportage in cui ho dato voce alle donne stuprate nel corso della migrazione nordafricana. A me non spetta neanche un centesimo, di quei premi. Ad essere molto onesti, questi riconoscimenti mi hanno forse dato legittimità, a me e soprattutto ad un’idea di reportage che va assolutamente fatto. Il mio primo Swiss Press, nel 2014, è stato un premio assegnato dai miei colleghi. Sono in debito con loro, perché mi hanno semplicemente permesso di fare il mio lavoro.
– Di fronte a testimonianze a volte tanto dure, come si “protegge”, come prende cura della sua salute mentale?
– Vivo anzitutto nei Paesi in cui vedo o sento questi orrori. Questo mi permette di stare con le persone e mi dà la sensazione di non rubare loro nulla. Piango e rido con loro. Condividiamo i rischi. I rischi per la salute mentale, ad esempio, quelli che si corrono quando la realtà ti arriva addosso come uno schiaffo in faccia. Cerco anche di fare regolarmente un debriefing con un’infermiera specializzata in aiuto psicologico d’emergenza. È un aspetto importante, che promuovo anche, non sono una di quelle persone che dicono: “Ma no, va tutto bene”. L’equilibrio rimane precario, lo so. Quando vado in vacanza, mi ammalo. Non ho tempo per niente, non ho tempo per lo sport, ecc. Lavoro costantemente. Ovviamente è troppo, è estenuante, inutile negarlo. Ma lo accetto, completamente. Cerco di limitare i danni. Sono privilegiata, perché non ho problemi a piangere e a ridere. Sono i miei sfoghi principali. Quando non riesco più a piangere, so che c’è un problema. È il campanello d’allarme. Mi sono permessa di fare questo lavoro nel modo in cui voglio farlo. Non vorrei fare altro. Non sto soffrendo per nulla. Al contrario.
– Come affronta l’ansia della sua famiglia?
– Spero che col tempo se ne siano fatti una ragione. Io mi sento un po’ in colpa, questo è certo. Non vorrei avere una figlia come me, forse è per questo che non ho avuto figli. Ma i miei genitori sono forti, mi capiscono e mi sostengono. È una tortura che infliggo loro, ma forse anche un modo per ringraziarli di avermi cresciuta così. Cerco di essere un po’ utile nel mio piccolo, anche se non posso essere alla loro altezza. Mia madre è un’infermiera, aiuta davvero le persone. Anche mio padre è uno specialista di diritto europeo, che passava il suo tempo ad aiutare gli altri con strumenti legali. Io faccio solo rapporti, non cambio il corso della storia. Ma a volte le persone che si confidano con me mi dicono che il fatto di verbalizzare, di esprimere a parole l’orrore fa loro bene. Se trovano un po’ di sollievo, allora non faccio questo mestiere per niente. E poi ho un compagno assolutamente fantastico, un ragazzo giovane che, quando gli ho detto: “Ehi, voglio trasferirmi a Tunisi per coprire il Nord Africa”, mi ha risposto: “Ok, andiamo!” E poi si è dimesso per venire a Kiev.
– Come vede il futuro?
– Cerco di essere forte, di essere all’altezza di tutto. Ho molta voglia di andare nei territori occupati dalla Russia e anche in Russia. Un conflitto non dovrebbe essere affrontato solo da una parte. Questo è il grande problema di questa guerra. Cercherò di convincere le autorità russe a lasciarmi attraversare il confine.
Traduzione a cura della redazione
Nell’immagine: Maurine Mercier (RTS)
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