È successo di tutto domenica 14 gennaio in Guatemala all’assunzione a capo di stato del 65enne sociologo ed ex diplomatico Bernardo Arévalo. Ma dopo sei interminabili mesi di tormentata transizione, pur all’ultimo, ci è riuscito. In quella che può essere considerata forse l’unica buona notizia in America Latina da almeno un anno e mezzo a questa parte.
Si era ampliamente imposto al ballottaggio dello scorso 20 agosto dopo aver superato a giugno il primo turno nello stupore generale, visto che, per essere in fondo ai sondaggi, era stato l’unico candidato progressista (a mo’ di foglia di fico) a non essere arbitrariamente escluso dalla contesa dal cosiddetto “pacto de los corruptos” al governo. Che poi, spiazzato, ha tentato di tutto per impedirgli di arrivare all’insediamento manovrando il proprio fedelissimo braccio giudiziario che gli ha scatenato contro una vera e propria persecuzione.
Prima sospendendo la legalità del suo Movimiento Semilla (seme) per presunte irregolarità nella raccolta delle firme all’atto della sua costituzione nel lontano 2019. Poi cercando di annullare l’immunità dello stesso Arévalo, già deputato e segretario del partito, per “finanziamenti illeciti” e per aver presenziato due anni orsono all’occupazione dell’Università San Carlos della capitale, “sobillando” gli studenti che la stavano occupando. Infine incriminando ben quattro dei cinque titolari del Tribunale Supremo Elettorale (che avevano certificato i risultati) inventandosi anomalie durante lo scrutinio e frodi nell’acquisizione del sistema informatico di trasmissione dei dati. Con i relativi inquisiti che sono subito fuggiti all’estero per scampare al carcere.
Il tentato golpe istituzionale, sotto la regia della Procuratrice generale Consuelo Porras, aveva però provocato la reazione di studenti e organizzazioni della società civile e soprattutto la mobilitazione delle autorità ancestrali che da ottobre hanno paralizzato per oltre un mese la circolazione in tutto il paese. E dire che le varie etnie indigene, che costituiscono la metà dell’intera popolazione, non avevano sostenuto Arévalo (della classe media bianca) durante il processo elettorale, per il quale avevano candidato la loro Thelma Cabrera (esclusa dalla contesa). Ma una volta eletto si sono aggregate intorno a lui coscienti che costituisse l’ultimo baluardo per un possibile riscatto da secoli di subalternità coloniale.
Curiosità vuole che il magistrato più fedele della torquemada guatemalteca Porras sia proprio un indigeno maya/kaqchikel, Rafael Curruchiche, a capo della Sezione Speciale contro l’Impunità, che è giunto persino a chiedere l’annullamento tout court delle elezioni e la loro ripetizione. Oltre a tentare di estendere un formale mandato d’arresto (mai eseguito) nei confronti della vicepresidente eletta Karin Herrera.
A questo calvario aveva posto fine solo due settimane fa la Corte Costituzionale (pur senza dirimere sino in fondo i contenziosi giuridici) sentenziando la piena legittimità dell’attribuzione della prima carica dello stato ad Arévalo. Non è un caso che qualche giorno dopo uno dei membri della stessa massima istanza del potere giudiziario sia stato minacciato di morte dai trafficanti di droga locali (legati ai cartelli del confinante Messico). Che insieme a una fetta consistente della storica oligarchia hanno convertito di fatto il Guatemala in un narcostato.
Oltre alle spontanee proteste popolari interne, determinante per l’esito positivo della vicenda sono state le pressioni all’unisono della comunità internazionale. A cominciare paradossalmente da quegli Stati Uniti che nel 1954 (esattamente 70anni fa) rovesciarono con un colpo di stato il decennio della Rivoluzione Democratica guatemalteca di cui fu pure presidente (fra il ’44 e il ’51) il padre di Bernardo Arévalo, Juan José [vedi nota in calce].
Joe Biden aveva disposto già da un paio d’anni (applicando la legge Magnitsy) la sospensione dei visti oltre che sanzioni ad personam ai giudici al servizio del corrotto sistema politico (compreso il congelamento dei conti correnti). Ma il mese scorso ha esteso quei provvedimenti a ben 300 tra funzionari del governo uscente, imprenditori privati e ai 108 deputati della destra che avevano votato per la sospensione dell’immunità ad Arévalo. Con le conseguenti ire del presidente uscente Alejandro Giammattei (tuttora orgogliosamente titolare di un passaporto italiano) per “interferenza negli affari interni” del suo paese.
Allo stesso modo il parlamento europeo si era schierato in difesa del risultato elettorale, tanto più che furono in primo luogo gli osservatori del vecchio continente a ratificare sul posto la regolarità delle consultazioni. Senza contare poi l’Organizzazione degli Stati Americani (Osa) che ha realizzato ben nove missioni per garantire un “ordinato” passaggio dei poteri. Da ultimo ci si era messa pure l’Alta Commissione per i Diritti Umani dell’Onu ad allertare per il “rispetto della volontà popolare” in Guatemala.
Il giorno dell’insediamento
Il peggio sembrava passato e nessuno si sarebbe immaginato quanto doveva succedere il giorno del passaggio delle consegne. Il primo segnale inquietante è venuto dall’assenza del predecessore Giammattei, che nel pomeriggio avrebbe dovuto trasmettere simbolicamente ad Arévalo la fascia presidenziale. Mentre a sovraintendere all’investitura sarebbe toccato da protocollo al presidente del rinnovato parlamento; a sua volta da nominare quella stessa mattina.
Ebbene nella sessione d’esordio della nuova assemblea legislativa è scoppiato il putiferio. Con gli onorevoli della destra che hanno tentato di formare un direttivo a propria immagine, con l’argomento che la legalità del Movimiento Semilla di Arévalo era stata sospesa un paio di mesi prima dall’autorità giudiziaria. Con la conseguenza che i suoi 23 eletti avrebbero potuto insediarsi solo come “indipendenti”. E dunque nell’impossibilità di assurgere alla guida dell’organismo.
La diatriba sembrava non finire mai. E le ore passavano. Con i presidenti di Costarica, Honduras, Panama, Colombia, Cile, Paraguay, Belize e il re di Spagna a fare anticamera. Incaricando però i propri ministri degli esteri, con l’aggiunta di Josep Borrel per l’Unione Europea e del segretario generale dell’Osa Luis Almagro, di sollecitare pubblicamente il regolare proseguo della funzione. Pare persino che la delegazione giunta dagli Stati Uniti abbia premuto sui deputati reazionari perché ponessero fine a quel vergognoso boicottaggio.
Intanto cresceva la tensione per le vie della capitale fra i sostenitori di Arévalo che volevano festeggiare il passaggio di consegne; con alcuni gruppi che tentavano di forzare il cordone della polizia intorno al Congresso riunito.
La procedura prevedeva che se il presidente eletto non avesse giurato entro la mezzanotte, l’esercito avrebbe assunto temporaneamente le redini del paese sotto la supervisione del parlamento.
All’ultimo momento è giunta la votazione decisiva (ai limiti della legalità) per la quale “miracolosamente” 92 deputati sui 160 totali hanno riconosciuto la legittimità del partito Semilla arrivando ad eleggerne persino il 31enne Samuel Pérez al vertice dell’assise. Il quale si è subito trasferito col resto dei parlamentari che lo avevano nominato al Teatro Nazionale Miguel Àngel Asturias. Dove un irrequieto Bernardo Arévalo, entro lo scoccare delle 24, ha fatto giusto in tempo a pronunciare il giuramento con un breve discorso di 25 minuti. Solo che ormai re Felipe VI e il cileno Gabriel Boric, spazientiti, se ne erano andati (pur essendosi con lui incontrati calorosamente qualche ora prima). Con al contrario il colombiano Gustavo Pedro a dichiarare “non me ne vado fino a che Arévalo non sia diventato a tutti gli effetti presidente”.
Solamente alle tre di notte la coppia presidenziale ha potuto affacciarsi dal balcone del Palacio Nacional per rivolgere il loro primo saluto alla nazione; esordendo con un sospirato “ce l’abbiamo fatta”. Per poi recarsi all’esterno della sede della Procura Generale della Repubblica presidiata da ben 107 giorni dalle organizzazioni indigene che chiedevano le dimissioni della magistrata Porras, inquisitrice di Semilla e del suo massimo leader. Invitandole a ritirarsi. Di lì Arévalo ed Herrera si sono trasferiti al Parque Central in mezzo alla gente.
All’alba è giunto infine il turno del giuramento dei ministri del nuovo governo. Sette uomini e sette donne. Fra i quali una sola indigena: Catarina Roquel Chávez al dicastero del lavoro (come un solo nativo è deputato, anch’egli donna). Il che ha lasciato piuttosto deluse le quattro popolazioni native, garifuna, xinka, ladinos e maya (questi ultimi a loro volta suddivisi in 4 ceppi di 22 etnie) e il cui rapporto sarà decisivo per il decollo del nuovo corso. La vice Herrera si era comunque resa presente il mese scorso (su invito) all’insediamento delle nuove autorità originarie dei 48 cantoni di Totonicapán. Che Arévalo ha ringraziato nella sua locuzione inaugurale per il sostegno ricevuto, collocando al centro del programma: “non più razzismi, ne discriminazioni” bensì “partecipazione e rispetto dei diritti umani”; con un auspicio per “l’unità e il dialogo”. “Non c`è democrazia senza giustizia sociale e partecipazione”, ha concluso al riguardo. Recandosi poi due giorni dopo da presidente a una cerimonia tradizionale in una località sacra maya (dopo aver presenziato al Te Deum nella cattedrale).
Le sfide di Arévalo
L’altro nodo ancor più dirimente del suo mandato (di appena quattro anni, senza che sia possibile un bis) è la lotta alla corruzione e il ristabilimento del precario sistema democratico di questo paese. Ma il fatto che Arévalo debba fare i conti con un parlamento che poco controlla gli complicherà oltremodo il percorso. Tanto più che a soli due giorni da capo di stato, la Corte Costituzionale ha disposto l’immediata ripetizione dell’elezione della nuova presidenza del Congresso, invalidando la prima per irregolarità. Col risultato che ai vertici ora c’è l’ex capo della Polizia Nazionale Civile, il moderato Nery Ramos, in sostituzione di Perez (durato appena tre giorni). Con Semilla che, nonostante sia il terzo partito con i suoi 23 seggi, non risulta nemmeno nel direttivo. In compenso Ramos ha ottenuto una maggioranza ancor più amplia con 115 voti (compresi quelli di Semilla) in un incredibile rimescolamento di deputati (alcuni di essi conservatori) passati opportunisticamente sull’altra sponda pur di contare. Allo stesso tempo è improbabile che la procuratrice Porras (già convocata da Arévalo a colloquio) abbandonerà il proprio incarico (e la sua ostilità) prima della scadenza del 2025.
In ogni caso il “patto dei corrotti” è entrato in crisi, per adeguarsi alla nuove circostanze. Con l’ex presidente Giammattei uscito definitivamente di scena, per di più formalmente inibito dal poter entrare negli Stati Uniti. Tanto che ha badato bene di conservare l’immunità subentrando di diritto al Parlamento Centroamericano: istituzione sovranazionale con sede nella capitale guatemalteca, che lui stesso intendeva chiudere per la sua “inutilità”. Anche a suo figlio Eduardo è stato negato l’altro giorno l’ingresso negli Usa all’aeroporto di Miami.
La confindustria locale dal canto suo, facendo buon viso a cattiva sorte, ha optato per congratularsi con Arévalo. Sicuramente hanno avuto il loro peso i severi moniti e le sanzioni individuali decretate dal Dipartimento di Stato Usa. Ma pure il rischio che una persistente instabilità possa pregiudicare ulteriormente le performance di un’economia già di per sé precaria. Che sopravvive grazie anche a un decisivo 20% del pil in rimesse familiari. Che arrivano proprio dagli emigrati negli states.
Per quanto si riferisce invece all’esercito (i cui vertici Arévalo ha riunito per in un atto formle nella Plaza de la Constitución) per decenni protagonista di dittature di generali genocidi come Efraín Rios Montt, avrebbe assunto negli ultimi anni un basso profilo “politico”. Salvo, altra questione delicatissima da affrontare, collaborare discretamente con i narcos per il transito della cocaina verso il nord.
Arévalo, dopo essersi impegnato a rilanciare sanità, istruzione e misure contro il cambio climatico, dovrà poi fare in modo di ripristinare la libertà di espressione e di stampa. A cominciare dalla liberazione dell’ex direttore dell’estinto El Periodico, José Rubén Zamora, condannato lo scorso anno dopo alcuni articoli in cui accennava del malaffare di Giammattei. Dovrà pure favorire il rimpatrio di decine di altri giornalisti che hanno dovuto lasciare il Guatemala. Come altrettanto di numerosi magistrati scappati all’estero per aver praticato in patria l’indipendenza del potere giudiziario.
Da ultimo la politica estera. La delegazione giunta da Washington è stata di basso profilo. Ma Biden ha mandato un messaggio d’incoraggiamento ad Arévalo. Il quale (in cambio) gli aveva già fatto capire che, al contrario di quanto attuato da tutti gli altri paesi della regione, non chiuderà l’ambasciata di Taiwan per aprire relazioni con Pechino.
Più in generale nel suo discorso d’insediamento Arévalo ha menzionato il “crescere di autoritarismi nel mondo e in Centroamerica”. Riferendosi evidentemente alle autocrazie dei vicini El Salvador e Nicaragua, che hanno assistito solo con i loro ambasciatori. Preoccupante pure l’assenza alla cerimonia di Manuel Lopéz Obrador, presidente dell’importantissimo confinante Messico, rimasto forse infastidito dalle premesse fatte alla vigilia da Arévalo sui “diritti” e la “non repressione” del transito dei migranti nell’istmo.
Insomma tanti buoni propositi quelli del neopresidente, consapevole che “ci aspettano tempi duri”. Per ridare un futuro al paese più grande, popolato (17 milioni di abitanti) e ricco quanto disuguale del Centroamerica (con 260 persone che concentrano il 42% del reddito). Non resta che augurargli di propiziare un’altra nuova “primavera” come quella che inaugurò suo padre nel lontano 1944. E le cui note del brano di Antonio Vivaldi sono state fatte non a caso risuonare durante il giuramento.
Nota: cui succedette l’ex colonnello e capo dell’esercito Jacobo Arbenz, di origine svizzera, rovesciato nel ’54 dal golpe della bananiera United Fruit Co e della Cia. Arbenz e Juan José Arévalo furono costretti all’esilio. Quest’ultimo a Montevideo, dove nacque suo figlio Bernardo.
Nell’immagine: Bernardo Arévalo raffigurato con alle spalle un dinosauro, che rappresenta il passato di corruzione che il neo presidente – secondo un sito guatemalteco -dovrà riuscire a sconfiggere