Di Francesca Caferri, La Repubblica
La premessa è di quelle che spiazzano. «Se viene a chiedermi cosa vedo per il futuro, le faccio notare che fuori dalla mia porta non c’è scritto “ufficio predizioni”. E poi le aggiungo che ultimamente non vedo bene». Sari Nusseibeh, 74 anni, professore di filosofia ex presidente dell’Università Al Quds, discendente di una delle più importanti famiglie di Gerusalemme, è considerato il più importante intellettuale palestinese. A lungo è stato impegnato nel dialogo con Israele, negli anni che portarono agli accordi di Oslo e dopo: è del 2002 il piano per la pace che ha stilato con l’ex direttore dello Shin Bet, Ami Ayalon. Ci riceve nel suo studio della parte Est della Città santa.
Perché non vede bene professore?
«Perché è difficile capire cosa ci aspetta. Ci sono diverse possibilità. Bisogna guardarle una ad una, escludere quelle impossibili e studiare quelle improbabili: fra di esse forse si nasconde la verità. Ma nulla è chiaro e definito. I fattori da prendere in considerazione sono quattro. Il primo è il rinnovato interesse della comunità internazionale per una soluzione: ma in passato, la comunità internazionale è stata piuttosto inefficace. Il secondo è il coinvolgimento militare di altri Paesi. Poi c’è Israele: non credo che ora ci sia la volontà di arrivare a un accordo con i palestinesi. Infine ci siamo noi: non credo che ci verrà offerto un compromesso che potremmo accettare. E dunque, temo che anche dopo tutta questa violenza torneremo alla scatola in cui siamo confinati da anni».
Quale sarebbe il compromesso che i palestinesi possono accettare?
«Molto si è parlato dei due Stati in questi anni: ma quella soluzione non è più valida. Ci sono stati cambiamenti geografici e demografici che dovranno essere discussi quando e se ci sarà di nuovo un tavolo di dialogo. Si dovrà parlare e si dovranno fare nuove concessioni: da parte di chi ha perso, che siamo noi, e da parte di chi ha vinto, Israele. Dubito si possa fare ora. Pensi solo al punto più difficile, la questione di Gerusalemme, quanto è cambiata in questi anni: tutto andrà ridiscusso e tutto presenterà nuovi problemi. Forse, a un certo punto, non so quando, ci sarà un’altra versione dei due Stati. Ma se mi chiede quali concessioni faremo noi, rispondo che senza un piano è impossibile dirlo».
Hamas oggi è il movimento più popolare fra i palestinesi a dar retta ai sondaggi: e non mi pare sia pronto a concessioni..
«Molte persone pensano che Hamas abbia rimesso sul tavolo la questione palestinese, impantanata dopo anni di parole e negoziati. Ma molto fa anche l’emozione del momento: quando la polvere si sedimenterà, tanta gente vedrà il danno che Hamas ha fatto con un’azione così violenta. E cambierà idea: almeno lo spero. Non c’è alternativa al negoziato e io personalmente spero che in quel negoziato non sia Hamas a rappresentarci, come spero che non sia Hamas a governarci in futuro. Ma un problema di leadership fra i palestinesi c’è: lo dimostra il fatto che la sera la gente aspetta i comunicati dei portavoce di Hamas per sapere come stanno le cose. Questo perché non si fida dei politici. Sul negoziato aggiungo una cosa: la pace la fai con i nemici. Anche di Arafat, Israele disse per anni che era un terrorista».
Quando lei dice la gente “cambierà idea” intende che ci sarà una condanna chiara delle azioni compiute da Hamas il 7 ottobre?
«Gli atti di orrore come quelli del 7 ottobre non possono che essere condannati. Noi li abbiamo condannati, io li ho condannati. Io e le persone che la pensano come me, condanniamo questo tipo di violenza da anni. Siamo in grado di distinguere fra un’azione militare e un massacro».
C’è un modo per salvare Oslo? Non il piano in sé, perché mi ha detto che è superato: ma l’idea. O sono stati fatti troppi errori?
«Gli estremismi hanno ucciso Oslo, dai due lati: la crescita della destra israeliana con le sue parole e le sue azioni contro i palestinesi che non vengono neanche punite. E il radicalismo religioso e poi politico di Hamas, che per anni ha preso di mira anche noi, che lavoravamo per il dialogo. Ma il fatto che l’accordo di Oslo sia fallito non vuol dire che fosse sbagliato. Se lei non passa l’esame di guida la prima volta che fa, molla?: no, riprova. Bisogna guardare agli errori, imparare e andare avanti. Oslo ha mostrato che la pace è possibile, che possiamo sederci allo stesso tavolo: ripartiamo da qui».
Attorno a questo tavolo, sulla poltrona palestinese chi dovrebbe sedersi? Nessuna delle persone con cui ho parlato in Cisgiordania si sente rappresentata dall’attuale leadership.
«E sulla poltrona israeliana chi ci sarebbe? Netanyahu che da 20 anni non vuole parlare con noi? Però lei ha ragione quando parla della questione della rappresentanza: se la conferenza si aprisse domani, probabilmente andrebbe il presidente Abbas, perché è l’unico che può muoversi. Non certo Yahya Sinwar, che verrà ucciso appena uscirà da quei tunnel: né Marwan Barghouti, che è in carcere. Ma la questione della rappresentanza c’è. Barghouti è l’unico che potrebbe unire le diverse anime. C’è un però: se a Barghouti venisse detto di rinunciare al diritto di ritorno dei palestinesi che hanno lasciato le loro case durante la guerra del ’48-‘49, come potrebbe accettare? Lo stesso vale se su quella poltrona ci fosse Mohammed Dahlan (ex leader di Fatah nella Striscia ndr) o Salam Fayyad (ex premier ndr)”.
Una differenza importante rispetto al passato: alcuni Paesi arabi hanno accettato l’esistenza di Israele. L’Arabia Saudita è pronta a farlo a patto che ci sia uno Stato palestinese: per voi cosa cambia?
«La posizione saudita non è del tutto nuova. Ed è da vedere: è vero che Biden e Blinken stanno spingendo molto, quindi Israele dovrà fare concessioni ai sauditi se vorrà il riconoscimento. Ma è anche vero che per ottenere qualcosa di concreto i sauditi non dovranno accontentarsi delle promesse: dovranno pretendere impegni con valore legale».
Nell’immagine: Sari Nusseibeh