Viaggio nel dolore delle madri di Gaza
Sara ha partorito senza anestetici e il suo bimbo non ha ancora un nome, a Maryam una bomba ha ucciso il piccolo che teneva braccio, Dalila ha perso due figli e il marito
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Sara ha partorito senza anestetici e il suo bimbo non ha ancora un nome, a Maryam una bomba ha ucciso il piccolo che teneva braccio, Dalila ha perso due figli e il marito
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Sara ha partorito senza anestetici e il suo bimbo non ha ancora un nome, a Maryam una bomba ha ucciso il piccolo che teneva braccio, Dalila ha perso due figli e il marito
Sara è accovacciata su una stuoia di paglia con la figlioletta neonata in braccio. Non le ha ancora dato un nome, e sono trascorsi quattro giorni dal parto. L’ho vista nell’angolo di un rifugio dell’Unrwa, a Rafah, nella parte meridionale della Striscia di Gaza. Sul volto mostrava evidenti i segni della spossatezza e della fatica. Partorire il primo figlio e diventare madre è una sfida in qualsiasi parte del mondo, ma a Sara è accaduto nel bel mezzo di un trauma inimmaginabile, nel pieno di una guerra che non risparmia nessuno, nemmeno i bambini che si trovano ancora nel ventre materno. Questa ventiquattrenne, originaria della parte settentrionale di Gaza, è scappata da casa sua assieme alla famiglia quando l’esercito israeliano ha intimato alla popolazione civile di andarsene e dirigersi subito a Sud per salvarsi. Sara era all’ultimo mese di gravidanza: «Correvo da un posto all’altro, completamente esausta – racconta –. In un primo momento ci siamo diretti al campo di Nuseirat ma ci sono stati bombardamenti nelle vicinanze, ho visto cadaveri ridotti a brandelli».
Sara ha cercato di raggiungere l’ospedale più vicino «ma la situazione era terribile, c’erano moltissime donne in travaglio, provenienti da varie aree di Gaza, da nord a sud e alla parte centrale. C’erano pochi antidolorifici, somministrati solo in caso di dolori insopportabili e soltanto a chi ne avesse più bisogno». Sara ha partorito la sua bambina senza antidolorifici. Le Nazioni Unite calcolano che le donne incinte colpite da questo conflitto siano circa cinquantamila. Malgrado le condizioni in cui versano, si calcola che ogni giorno negli ospedali della Striscia vi siano 160 nascite.
“Il cocco di mamma e papà”
«Mi trovavo su un furgone che trasportava le persone sfollate dalla parte settentrionale di Gaza a sud attraverso un corridoio sicuro. Durante il viaggio, i soldati israeliani ci hanno preso di mira e hanno fatto fuoco. Nel giro di pochi secondi, ho guardato mio figlio, che avevo in braccio, e mi sono ritrovata il suo cervello spappolato tra le mani. Ho guardato dall’altra parte, dove c’erano i suoi fratelli e le sue sorelle. Erano ancora vivi. L’ho lasciato lì, ho preso loro e siamo scappati». Questo è il racconto di Maryam, sfollata nei campi dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione (Unrwa). Mi ha raccontato con queste stesse parole del figlio minore, il piccolo di casa, viziato da mamma e papà. «Le sofferenze di Maryam non sono finite lì, continuano ancora adesso. Dopo l’incidente è rimasta ferita in un’area delicata del corpo, e si è aggravata perché ha dovuto procedere a piedi per un lungo tragitto nell’area sicura accompagnando suo figlio Walid, un bambino di quattro anni la cui mano è stata amputata durante i bombardamenti. Walid non ha perso soltanto il fratellino e una mano durante l’attacco, ma anche fiducia e senso di sicurezza. I suoi occhi lo dimostrano, quando lo incontro assieme alla madre».
I bambini dipendono soprattutto dal sostegno e dalle cure degli adulti. In guerra cure, protezione e aiuto possono interrompersi in un istante, quando subentra la perdita improvvisa di chi assicura l’accudimento (i genitori) oppure per l’assenza affettiva degli adulti a causa del clima di paura, tensione, attenzione per l’istinto di sopravvivenza e di protezione. L’assenza di tutto questo, oltre ai traumi provocati dalla guerra, come le ferite fisiche (a cui spesso si accompagnano disturbi psichici), e il fatto di assistere a scene di morte e devastazione lasciano nei bambini ripercussioni psicologiche che persistono per tutta la vita.
“Svegliato dalle loro anime”
Dalila Ajjur mi ha raccontato la tragedia che le è capitata due mesi fa, quando assieme a quattro figlie è scappata trovando riparo nella casa di sua sorella a Khan Yunis. Suo marito e i suoi due figli Mahmoud e Yusuf, non essendoci posto in casa, si sono sistemati in una stazione di servizio appartenente alla famiglia. «Ero triste perché lontana da casa nostra e volevo preparare da mangiare per mio marito e i bambini, come ho sempre fatto. In ogni caso, mi rincuorava sapere che stavano tutti bene e che un giorno avremmo fatto ritorno a casa nostra e a una vita normale». Con profonda tristezza, Dalila ricorda così gli eventi di quella terribile tragedia: «Mi sono svegliata all’improvviso, nel cuore della notte, come se mi chiamassero le loro anime salite in cielo. Poco dopo, ho sentito dire che la stazione di servizio dove mio marito e i miei figli stavano dormendo era stata colpita da una bomba caduta dall’alto. Ho cercato di contattarli per rasserenarmi, ma inutilmente. Poi, mi hanno detto che erano morti tutti, mentre dormivano gli uni accanto agli altri». Le sofferenze di Dalila non sono terminate lì: alla ricerca di un riparo sicuro e per salvare il resto della sua famiglia, ha dovuto spostarsi altre tre volte.
“Il mio sogno è restare viva”
«È importante concludere ricordando che i bambini di cui si parla in studi e notiziari non sono numeri: sono sogni, ricordi, il futuro rubato dalla guerra. Se discutere degli effetti psicologici e delle conseguenze della guerra può sembrare un lusso per alcuni, considerando la situazione nel suo complesso, il futuro dei bambini di Gaza non è chiaro né facile. Nel mondo “normale”, al mattino i bambini si svegliano, si alzano e si preoccupano di finire i compiti, si divertono giocando o stando con i loro amici. Per i bambini di Gaza la prima preoccupazione è sopravvivere e che il mondo riconosca subito che stanno lottando per sopravvivere». In mezzo a tutto questo, riprendersi dalla guerra e dal suo enorme impatto psicologico diventa una vera sfida per tutti.
Traduzione di Anna Bissant
New York Times, Guardian, Le Monde, Der Spiegel ed El País a favore di Assange e di una precisa idea di libertà di stampa
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