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Aldo Sofia
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• 5 Luglio 2023 – Aldo Sofia

Nel nord della Cisgiordania, Jenin col suo brulicante campo profughi: per i palestinesi la nuova “città martire e resistente” anche contro l’avanzare delle colonie ebraiche; per gli israeliani, un tumore terroristico da estirpare con violenta chirurgia militare, anche con attacchi aerei (elicotteri da combattimento + micidiali droni) mai visti nell’oltre mezzo secolo di occupazione delle terre arabe a ovest del fiume Giordano. Quindi nuovo tragico avvitamento, nuovi reciproci attacchi, vittime civili e no, un’escalation che nel triangolo da Gerusalemme Est a Hebron spinge una spirale di scontri con nuova intensità e nuove modalità. Da una parte, massicci raid in profondità da parte israeliana, con inusuale largo schieramento di mezzi e uomini. Dall’altra una nuova generazione di combattenti per lo più legati alle formazioni più radicali, dalla Jihad ad Hamas, mentre l’Autorità (laica) palestinese, a cui gli accordi di Oslo garantivano quantomeno il ruolo di polizia, letteralmente si squaglia: indicativo il fatto che, dopo la rituale condanna degli attacchi di Tsahal, i rappresentanti locali del “presidente” Mahmud Abbas, l’inetto successore di Arafat, alla testa di un Fatah dove regnano anarchia e corruzione, abbiano lasciato precipitosamente e vergognosamente Jenin per evitare ogni rischio.

Ancora una volta, dunque, il ritrovato premier Netanyahu (il premier più longevo nella storia dello Stato ebraico, scosso ma non disarcionato dalle imponenti manifestazioni interne contro la sua riforma della magistratura) riesce a fare ciò che ha sempre fatto: delegittimare il più possibile la controparte palestinese, fiaccarne costantemente la leadership, alimentarne l’impopolarità agli occhi del suo stesso popolo, lasciare campo ai gruppi jihadisti, presentarli così ai propri cittadini e al mondo come pericolo letale e indiscutibile per la sicurezza del paese. Operazione a cui del resto il nemico islamista, ormai non più confinato alla sola striscia di Gaza, volentieri si adegua alla strategia nemica, gonfiando la sua credibilità come unica barriera anti-israeliana e così arrivare a controllare politicamente il suo campo. Tanto più oggi, che “Bibi” (nomignolo dato al premier nella sua nazione, autocertificatasi “Stato degli ebrei”, come se non esistesse una robusta minoranza di arabi al suo intero (circa il 20 per cento della popolazione totale), tanto più, si diceva, che il premier e leader del Likud per poter governare ha imbarcato nella sua coalizione due formazioni che rappresentano il più estremista nazionalismo religioso.

Bezalel Smotrich

Miscela esplosiva, dunque. Ma per capire quale sia oggi la miccia principale (ve ne sono diverse) occorre guardare – cosa che la stampa fa raramente, per lo più limitandosi a cronache e versioni ufficiali di parte israeliana – a cosa accade non solo dentro ma anche attorno a Jenin. E pure al personaggio israeliano del momento: Bezalel Smotrich, del Partito Sionista Religioso, uno che per cominciare definisce una semplice “invenzione” il popolo palestinese (complimenti, significa allora che è stato inventato da Israele…), guida l’agguerrito mondo delle colonie ebraiche, e ha un non nascosto programma per l’annessione formale e definitiva di tutta la Cisgiordania. Facendo ancor più carta straccia di tutte le risoluzioni delle Nazioni Unite e di tutti gli auspici (molli, mollissimi, Svizzera compresa) della cosiddetta comunità internazionale (Stati Uniti in testa), che da anni praticamente lascia mano libera alla politica israeliana. Politica che più di un’organizzazione umanitaria, persino all’interno dello Stato ebraico, definisce di semplice e brutale “apartheid” anti-palestinese.

Così, questo “governo di Tel Aviv” (lo è ancora per molte capitali anche occidentali, Berna compresa, che ancora non riconoscono Gerusalemme quale “capitale eterna e indivisibile” di Israele), ha deciso un piano di ulteriore e forte annessione dei “territori”; ha già varato la nascita di centinaia di nuovi “settlement”; e vi ha aggiunto il cosiddetto ‘progetto E1” che quando realizzato taglierebbe in due la Cisgiordania, da Gerusalemme a Hebron. “Un primato nel processo di espansione dell’ultimo decennio”, lo definisce il quotidiano di destra “Maariv”. Con l’obiettivo, denuncia Mauricio Lapchik, uno dei direttori dell’israeliana Peace Now, “di legalizzare alla fine del processo tutti gli insediamenti esistenti”. Come se quelli, non pochi, ipocritamente definiti “illegali” dalla stessa legge israeliana, siano stati mai smantellati. Non sorprende perciò che, grazie alla passività dell’esercito nei loro confronti, gruppi di coloni di fronte a coloni galvanizzati dal programma e dal potere assunto dal loro “eroe” Smotrich, per vendetta (o anche no) si organizzino i loro raid a Jenin e in altre città palestinesi, e che la reazione palestinese (naturalmente sempre definita terroristica) abbia trovato nuovo slancio, colpendo più volte anche nella “parte” ebraica di Gerusalemme.

Flebili le preoccupazioni degli Stati Uniti, già presi dal teatro della guerra in Ucraina; e cauta preoccupazione espressa da un Joe Biden che deve pensare alla testarda convinzione (nonostante la sua traballante salute e le sue infinite clamorose gaffe) di poter riconquistare l’anno prossimo la Casa Bianca nel probabile secondo round contro Donald Trump, in assoluto il preferito di Netanyahu e dei suoi soci, che a Israele ha concesso praticamente tutto. In una campagna elettorale americana che potrebbe riproporre un duello tiratissimo, Biden non può inimicarsi più di tanto l’importante e influente comunità ebraica statunitense. Problema ben noto. E su cui tutti i governi di Tel Aviv hanno fatto affidamento.

Nell’immagine: devastazioni israeliane a Jenin






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