Don Lorenzo Milani – La scuola come vita, la vita come scuola
Nel centenario della nascita del ‘maestro di Barbiana’, gli insegnamenti anche attuali di un’esperienza di educazione popolare ribelle e radicale
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Nel centenario della nascita del ‘maestro di Barbiana’, gli insegnamenti anche attuali di un’esperienza di educazione popolare ribelle e radicale
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Nel centenario della nascita del ‘maestro di Barbiana’, gli insegnamenti anche attuali di un’esperienza di educazione popolare ribelle e radicale
Sono d’altronde consapevole, però, che esse possono servire per richiamare alla memoria, anche solo per un momento, figure significative della nostra cultura che meritano di essere riportate in vita. È senz’altro il caso di Don Lorenzo Milani (DLM), del quale il 27 maggio 2023 ricorre il centenario della nascita.
Non ho la presunzione, in un contributo come questo, di dar conto in maniera esaustiva e nemmeno esauriente, di un personaggio variegato e controverso (e conteso: tirato un po’ da tutte le parti ideologicamente) come il “maestro di Barbiana”.
Mi limiterò ad alcuni aspetti/sprazzi ricavati dalla variopinta tavolozza rappresentata dalla sua complessa personalità, dalla sua straordinaria opera pedagogico-educativa e dalle sue non ortodosse idee etico-politiche. Lo farò avvalendomi delle parole del diretto interessato, attinte dai suoi testi che figurano in calce a questo articolo.
Figura senz’altro fuori dagli schemi e visto con sospetto per la sua collocazione “ideologica” o scelta di campo, in un dopoguerra caratterizzato dall’ingombrante permanenza di mentalità e di strutture di potere ancora radicate nell’era/humus fascista. In effetti, la storiografia più recente ha messo in luce come in Italia (analogamente a quanto accaduto in Germania del resto) gli apparati istituzionali e i funzionari che li gestivano rimasero sostanzialmente immutati nel dopoguerra rispetto al ventennio.
Secondo di tre figli e appartenente a una famiglia dell’alta borghesia fiorentina colta, benestante e raffinata, di cui hanno fatto parte diversi scienziati e cattedratici. I genitori, entrambi agnostici e anticlericali, erano detentori di un notevole bagaglio culturale: la madre Alice Weiss, nata a Trieste nel 1895 e di origine ebrea, fu allieva di James Joyce e cugina di Edoardo Weiss, che la introdusse agli studi di Sigmund Freud. DLM le fu molto legato, dimostrando sempre nei suoi confronti una grande devozione sino alla fine dei suoi giorni, che trascorse proprio a casa della stessa. “Il priore aveva un profondo rispetto per la mamma. Io non ho mai visto una persona rispettare la propria mamma come lui”, testimonianza di Eda Pelagatti, che condivise con il priore gli anni di permanenza a Barbiana, in veste di stretta assistente e collaboratrice, anzi: “Io e lui eravamo come fratello e sorella […] Io ho vissuto con lui in famiglia, non al suo servizio”. Negli scritti pubblici di DLM appare solo marginalmente la figura del padre, probabilmente perché morì prima di essere ordinato sacerdote.
Pur provenendo da un contesto familiare di non-credenti, nel 1943 abbraccia convintamente la fede cattolica ed entra in seminario: ordinato sacerdote nel ’47 viene attribuito in veste di cappellano presso la parrocchia di San Donato di Calenzano, alle porte di Firenze. Qui si confronta con una realtà profondamente rurale, composta da braccianti, contadini ed operai e fonda la sua scuola popolare finalizzata a riscattare questo popolo di diseredati, convinto che l’istruzione costituisse il miglior viatico per un’esistenza piena e dignitosa. Si prodiga dunque per un’acculturazione di tali frange marginali della popolazione attraverso l’incremento della loro cultura generale e per l’acquisizione di una conoscenza/coscienza critica nell’interpretare il mondo d’appartenenza e analizzare la propria condizione di emarginazione.
Uomo scomodo, esigente ed energico, dotato di una personalità piuttosto spigolosa, poco incline ai compromessi nonché radicale nelle sue scelte di fondo di matrice evangelica, schierandosi senza mezzi termini per l’opzione preferenziale per i poveri, i diseredati, gli ultimi. Ciò lo poneva in odor di “comunismo” e dunque di una insidia inaccettabile per i vertici ecclesiastici coinvolti nell’operazione di contrastare in ogni modo tale perniciosa minaccia all’ordine costituito e alla morale vigente. D’altronde DLM non nutriva simpatia per il partito comunista, ricambiato in simile sentimento da quest’ultimo, che vedeva nel prete ribelle più un antagonista che un alleato nell’accreditarsi presso le classi meno abbienti.
Pertanto, entra ben presto in rotta di collisione con i vertici della Chiesa fiorentina, per la quale egli costituiva una spina nel fianco in quanto ritenuto “sovversivo”, tanto che l’arcivescovo di Firenze decise di isolarlo a Barbiana per cercare di allontanarlo dalle polemiche e smussarne la carica “rivoluzionaria”. Il diretto interessato, invece di opporsi al “confino” o lasciare l’abito talare – come i vertici dell’istituzione avrebbero preferito, per toglierselo di torno – rimase caparbiamente fedele alla sua missione sacerdotale, accettando per spirito di obbedienza la punizione ricevuta: ribelle “rispettosissimo” dell’obbedienza ecclesiastica.
Così, fu spedito in veste di priore a Barbiana: minuscolo paesino nel cuore del Mugello nell’Appennino toscano, di poco più di un centinaio di anime, dove esistevano una chiesa, una canonica, un cimitero e una manciata di casolari sparsi sulle pendici del Monte Giovi. Questa era Barbiana quando il 7 dicembre 1954 vi arrivò DLM: “isolata dal mondo, senza luce elettrica, senza acqua corrente, senza nulla. Dove la solitudine generava dolore e pazzia”. Angolo sperduto molto lontano dall’Italia del boom economico.
E qui, in un apparente totale isolamento, poté comunque dar adito alla sua dirompente carica innovativa ed “eversiva”, sul piano sia pedagogico-educativo, con l’istaurazione della sua “scuola popolare per giovani operai e contadini”, sia politico-istituzionale, contro la guerra e a favore del servizio civile.
La scuola voluta fortemente da DLM si contraddistingue subito per taluni tratti distintivi assai all’avanguardia: il nozionismo e l’organizzazione burocratico-tradizionale lasciano il posto a una vera e propria ‘comunità educante’ improntata ai principi di un attivismo pedagogico che invece di concepire l’alunno come un vaso vuoto da riempire con le nozioni elargite dal docente e dai sussidiari adottati su scala nazionale, lo inserisce in un contesto di studio e di ricerca collettivi, dove si co-costruiscono le conoscenze e le coscienze, ancor prima delle competenze, interrogando la propria esistenza ed esperienza, nonché analizzando il mondo circostante. L’insegnamento e l’apprendimento sono in tal modo il frutto di un’attività euristica d’inchiesta e di scoperta cui tutti sono chiamati a fornire un contributo diretto, concreto e attivo, piuttosto che un processo a circuito chiuso nella trasmissione unidirezionale di un sapere paludato fra maestro e discente all’interno di quattro mura separate da quanto sta fuori.
Proprio per allargare i propri orizzonti e diventare cittadini consapevoli, si studiano le lingue straniere (inglese, francese, tedesco e persino l’arabo) e si organizzano viaggi di studio e di lavoro all’estero. Inoltre, si introducono lezioni di recitazioni teatrale e si cerca di dispiegare le diverse facoltà umane dando spazio all’espressività artistica, corporea, e alla dimensione spirituale. Si studia 10/12 ore il giorno, 365 giorni l’anno, poiché il divario da colmare per l’affrancamento socioculturale richiede uno sforzo e un impegno a tutto tondo, senza distrazioni. “Ogni mattina si alzava alle 6,30. La scuola cominciava alle 7 o alle 8 e andava avanti tutto il giorno. Talvolta fino alle 10 di sera […]. Non voleva che i ragazzi stessero in ozio: ‘il tempo è prezioso’, diceva il priore. Lui non perdeva mai tempo e la sua vita era un insegnamento continuo”, ricorda Eda Pelagatti. A parte qualche strappo alla regola, come la gita al mare (tanto per conoscerlo e soddisfare la curiosità dei ragazzi) e la costruzione di una piccola piscina per divertirsi e per vincere la paura dell’acqua.
Nel 1963 arriva a Barbiana una giovane docente, Adele Corradi, incuriosita dai metodi adottati dal priore: lui la invita a rimanere ad insegnare e lei accetta. Ecco cosa dice la stessa Corradi oggi: “La mia speranza è che nelle scuole si smetta di parlare di Don Milani e si studi Don Milani, che a studiarlo non siano i ragazzi, ma gli insegnanti, così da nutrirsi dei suoi insegnamenti e di applicarli secondo le esigenze odierne, in quanto il suo pensiero riveste ancora una certa attualità”.
Tutti gli ospiti e i visitatori sono chiamati dalla comunità educante di Barbiana a dare il proprio apporto conoscitivo, portando esperienze, conoscenze e competenze in grado di far crescere il collettivo. Per questo sono sottoposti a uno stillicidio di domande da parte dei ragazzi stimolati da DLM, il quale non sempre tratta con i guanti chi giunge in visita, tanto che taluni ripartono un po’ frustrati e delusi.
Altra particolarità metodologica: la scrittura collettiva, in quanto il contributo del singolo trova la piena realizzazione nel confronto sinergico con gli altri membri dell’assemblea scolastica che ne potenziano il pensiero, sul piano concettuale e linguistico. Alla padronanza della lingua viene data la massima priorità, giacché è proprio attraverso tale strumento espressivo che i soggetti delle classi subalterne hanno l’opportunità di un miglioramento delle proprie condizioni esistenziali così da procacciarsi e difendere i propri diritti: “Ogni volta che non capite una parola voi mi dovete fermare, perché ogni parola che non imparate oggi è un calcio nel culo che prenderete domani”.
Il motto della scuola di DLM era I CARE, ovvero: mi riguarda, mi sta a cuore, mi prendo cura (di me, dell’altro, dell’ambiente, del mondo).
“Ma io non sono un sognatore sociale o politico: io sono un educatore di ragazzi vivi. Ed educo i miei ragazzi vivi a essere buoni figlioli, responsabili delle loro azioni, cittadini sovrani”.
Quest’educazione alla cittadinanza attiva, come già accennato, avviene mediante un approccio maieutico – non è un caso che DLM legge insieme ai suoi ragazzi Socrate, unitamente ad altri autori classici della tradizione filosofica e letteraria – dove ciascun membro della comunità d’apprendimento è chiamato responsabilmente ed autonomamente ad incrementare il proprio bagaglio conoscitivo e a contribuire all’accrescimento della ricchezza culturale del collettivo. A Barbiana, non solo si va a scuola, ma la si fa: tutti quanti ne sono partecipi e protagonisti allo stesso tempo, in un processo di co-educazione dove la linfa vitale è costituita dall’impegno partecipativo di tutti alla vita comunitaria. Al posto dei sussidiari preconfezionati, dov’è condensato un sapere stagnante e dominante, si leggono i giornali quotidiani e tutte quelle fonti che consentono di immergersi direttamente nella realtà socioeconomica e nel dibattito politico-culturale in corso, toccandone con mano le contraddizioni e le sperequazioni. Pur con le debite differenze, non è peregrino riconoscere delle analogie e convergenze con le proposte pedagogiche di Célestin Freinet e di Paulo Freire, in particolare per quanto attiene alla pratica di un’educazione alla cittadinanza attiva che non teme di sporcarsi le mani con la dimensione politica.
Il metodo seguito è quello improntato alla ricerca e alla scoperta: “Si pone il problema, si studia a fondo [lo si sviscera nelle sue varie componenti], lo si lima per giungere al massimo di espressività [efficacia espressiva] e a una verità più vera” (anche qui il richiamo a John Dewey avviene spontaneo), senza indulgere a bizantinismi o ad orpelli troppo sofisticati, per privilegiare invece l’essenzialità e un linguaggio il più chiaro e semplice possibile, in maniera da essere compreso da tutti, specialmente da coloro che sono situati agli ultimi posti della scala/ta sociale.
La lingua, la padronanza della stessa, costituisce il grimaldello fondamentale per mirare all’eguaglianza e alla piena realizzazione degli uomini: “È solo la lingua che fa eguali. (…) La cultura vera, quella che ancora non ha posseduta nessun uomo, è fatta di due cose: appartenere alla massa e possedere la parola”. L’insistenza sulla ‘parola’, quella non banale e superficiale bensì profonda, essenziale e chiarificatrice verso la ‘verità’, trova probabilmente origine nel retaggio ebraico della sua famiglia d’origine, a partire dalla quale DLM coltiva la passione ermeneutica per la ‘parola’ consegnata nei testi classici che unisce alla sua formazione religiosa, attingendo soprattutto dal verbo evangelico. Egli giunge così a concepire il sacerdozio non solo come vocazione religiosa, ma anche, anzi soprattutto, come missione educativa votata alla formazione culturale – mediante appunto l’appropriazione piena di una ‘parola’ emancipatrice – dei meno abbienti, dei diseredati: operai e contadini, che in tal modo hanno la possibilità di affrancarsi dalla loro condizione di sudditanza, subalternità e sfruttamento. “Essere dilettanti in tutto e specialisti solo nell’arte del parlare”, scrivono i ragazzi di Barbiana.
“Lettera a una professoressa” è il libro uscito nel 1967 e scritto da DLM insieme ai suoi ragazzi secondo l’approccio di scrittura collettiva: denuncia senza mezzi termini l’arretratezza e la diseguaglianza insite nella scuola italiana, la quale è accusata d’ispirarsi a un principio classista e non di solidarietà, giacché scoraggia i più deboli e promuove/sostiene i più forti. “Non c’è ingiustizia più grande che fare parti uguali tra disuguali”. Si lancia un forte grido d’accusa verso un sistema formativo che produce una dispersione scolastica spaventosa e non degna di un paese civile: “La scuola ha un problema solo, i ragazzi che perde per strada (…). A questo punto gli unici incompetenti di scuola siete voi (insegnanti) che li perdete e non tornate a cercarli”; “Se si perde loro (gli ultimi) la scuola non è più scuola. È un ospedale che cura i sani e respinge i malati”.
Il libro ricevette un’accoglienza alquanto freddina dall’establishment per il suo carattere marcatamente dirompente nel denunciare l’iniquità dello status quo, mentre ricevette un vibrante sostegno da Pier Paolo Pasolini, che invitò senza esitazioni il largo pubblico a leggerlo come necessaria chiave interpretativa della società italiana dell’epoca. Guido Crainz in “Autobiografia di una repubblica. Le radici dell’Italia attuale” (Donzelli, 2009) scrive che “Lettera ad una professoressa” è il più importante testo di culto della contestazione studentesca del 1968.
Questo pamphlet – in sintonia con una serie di approfondite analisi sociologiche di quegli anni (si pensi a mo’ d’esempio agli studi di Bourdieu e Passeron in Francia, sui meccanismi di riproduzione delle diseguaglianze socioeconomiche cui la scuola contribuisce in maniera sostanziale) – ebbe dei riverberi di non poco conto anche nel Cantone Ticino, specie alla Magistrale del Sessantotto, dove Norberto Bottani e Bruno Segre diedero voce a DLM e ai suoi ragazzi, introducendone “Lettere a una professoressa” come spunto di discussione per analizzare il sistema scolastico e come esempio d’impegno per un’educazione civile orientata a formare cittadini sovrani, cioè responsabili delle proprie azioni, non succubi del pensiero altrui e non rassegnati alle mode del momento (vedi: ‘Don Milani, il Ticino e il Sessantotto’ di Bruno Bergomi, RSI 29.12.2008).
Occorre però fare attenzione a ritenere DLM il padre di una certa declinazione strumentale della contestazione studentesca sessantottina, interpretata in chiave di un egualitarismo ingenuo riassumibile nella promozione facile e per tutti indistintamente, a costo zero in termini di sforzi personali. A una simile versione credo proprio che DLM si sarebbe rifiutato di aderire, anzi vi si sarebbe opposto con vigore, poiché egli non mirava certo a una sorta di omogeneizzazione dei risultati del processo formativo che vedesse tutti indistintamente raggruppati in un orizzonte di mediocrità. Al contrario, si dedica con grande dedizione e talvolta veemente a ricercare e valorizzare le peculiarità individuali dei propri allievi, chiamati soggettivamente a coltivare con impegno, dedizione e perseveranza le proprie qualità e i propri talenti in percorsi formativi personalizzati pur in stretta collaborazione con gli altri.
Ma Barbiana non rappresenta soltanto un modello, o meglio un laboratorio di grande innovatività e creatività pedagogica, cui parteciparono e si interessarono figure significative come Enzo Paci, Leonardo Sciascia, Italo Calvino, Mario Luzi, Carlo Cassola, Oliviero Toscani, e altri intellettuali, come il già citato Pasolini.
Il pensiero e l’opera di DLM ebbero un grosso riverbero più in generale nel dibattito politico e culturale, scatenando forti reazioni a causa della radicalità e della dirompenza della loro portata. Fa scandalo la sua netta opzione preferenziale per i poveri – in piena sintonia con la ‘teologia della liberazione’ che si andava affermando in quegli anni in America Latina – in virtù di una certa lettura e applicazione senza alibi e compromessi del Vangelo (in particolare al messaggio delle Beatitudini, dove gli ultimi sono i primi e i poveri sono i più beati di tutti), ispirandosi alla figura del Cristo. “Bisogna aver le idee chiare in fatto di problemi sociali e politici. Non bisogna essere interclassisti, ma schierati. Bisogna ardere dell’ansia di elevare il povero a un livello superiore. Non dico a un livello pari a quello dell’attuale classe dirigente. Ma superiore: più da uomo, più spirituale, più cristiano, più tutto”; “Chi sa volare non deve buttar via le ali per solidarietà coi pedoni, deve piuttosto insegnare a tutti il volo”; “la sete di sapere appartiene alla parte più alta dell’uomo e Dio non le ha posto alcun limite positivo se non quello delle nostre possibilità umane”.
Però, tali riferimenti o princìpi non sembrano affermati e portati avanti sulla spinta di una postura predicatoria o marcatamente proselitistica, bensì all’insegna della forza educativa dell’esempio e della testimonianza personale nel denunciare e cercare di superare le ingiustizie sociali: “A noi non interessa tanto colmare l’abisso di ignoranza quanto l’abisso di differenza”; “Nessuno si fida più di nulla che non sia vissuto prima che detto. Ed è giusto. E Gesù stesso ha molto più vissuto che parlato. E molto più insegnato col nascere in una stalla e col morire su una croce, che col parlare di povertà e di sacrificio”; “Quando ci si affanna a cercar apposta l’occasione di infilar la fede nei discorsi, si mostra di averne poca, di pensare che la fede sia qualcosa di artificiale aggiunto alla vita e non invece ‘modo’ di vivere e di pensare”.
Simile precisa e radicale scelta di campo, a favore senza indugi delle frange più fragili e deboli della società, è il frutto di una lettura dichiaratamente politica della realtà – nel rifiuto di qualsiasi neutralità o equidistanza, nonché nel rigetto dell’individualismo ed egoismo – a favore delle masse popolari e della solidarietà umana. “Ho insegnato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”; “Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora io dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri” (la sintonia con Freire è evidente, cfr. Pedagogia degli oppressi, Mondadori 1971, ed. or. 1970).
Allora, la pedagogia maieutica di DLM diventa esortazione a costruire una propria coscienza critica e civile, viatico per una reale e sostanziale cittadinanza che si conquista essenzialmente attraverso l’assunzione di una intrinseca responsabilità personale capace di orientare le proprie scelte e decisioni, anche al di là dell’ordine costituito. Pertanto, la cieca e acritica obbedienza a quest’ultimo non è più ritenuta un valore in sé, ma una forma di debolezza. “Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni [autoassolutoria], che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto”.
Di qui, l’esortazione a battersi e a impegnarsi nell’istruzione, nell’impegno politico e sindacale, in ogni ambito della sfera pubblica al fine di superare lo status quo e migliorare il proprio ambiente di appartenenza, facendo leva sugli strumenti fondamentali della democrazia: il dibattito, il confronto (che non esclude il conflitto), il voto, ma anche lo sciopero previsto dalla Costituzione, senza escludere il ricorso all’obiezione di coscienza, qualora non si concili con i propri convincimenti profondi: “La leva ufficiale per cambiare la legge è il voto. La Costituzione gli affianca anche la leva dello sciopero. Ma la leva vera di queste due leve del potere è influire con la parola e con l’esempio sugli altri votanti e scioperanti. E quando è l’ora non c’è scuola più grande che pagare di persona un’obiezione di coscienza. Cioè violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede”.
Secondo il ragionamento di DLM, consegnato alla “Lettera ai giudici” (redatta per autodifesa in quanto malato e impossibilitato a recarsi presso il Tribunale di Roma, al processo istruito nell’autunno 1965 contro di lui con l’accusa di apologia di reato a seguito della sua difesa dell’obiezione di coscienza espressa qualche mese prima in una lettera aperta ad un gruppo di cappellani militari toscani che in un loro comunicato avevano definito l’obiezione di coscienza “estranea al Comandamento cristiano dell’amore ed espressione di viltà”) chi è pronto a pagare di persona assumendo la piena responsabilità delle proprie scelte politico-coscienziali, tese a perseguire una legge migliore, dimostra di tenere alla legge ancor più degli altri: “Questa tecnica di amore costruttivo per la legge l’ho imparata insieme ai ragazzi mentre leggevamo il Critone, l’Apologia di Socrate, la vita del Signore nei quattro Vangeli, l’autobiografia di Gandhi, le lettere del pilota di Hiroshima. Vite di uomini che son venuti tragicamente in contrasto con l’ordinamento vigente al loro tempo non per scardinarlo, ma per renderlo migliore”.
Non stupiscono i riferimenti richiamati, tenuto conto della convinta adesione del priore alla nonviolenza e del risoluto rigetto della guerra come forma del tutto inaccettabile per affrontare i conflitti. “E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruenti: lo sciopero e il voto”.
Nella summenzionata lettera ai cappellani militari, il suo autore citava esplicitamente i due tentativi da lui considerati più nobili volti a perseguire la libertà e la giustizia nel mondo, vale a dire: il sistema democratico e il sistema socialista.
Credo che, per un verso, l’esperienza e il “modello” di DLM siano irripetibili e non applicabili allo stato attuale: improponibile pensare a una scuola a tempo più che pieno e a tutto campo come quella ideata dal priore di Barbiana, così come i suoi metodi talora piuttosto sbrigativi e “autoritari” per imporre una certa linea dettata non solo dalla grande fiducia e scommessa investita nell’educazione, ma anche dalla missione pastorale che aveva abbracciato, mettendosi al servizio dei più poveri. Al riguardo è verosimile che abbia giocato un ruolo anche una sorta di espiazione rispetto alle proprie origine altoborghesi, da compensare con una vita devoluta a restituire forza e dignità ai meno fortunati: “Tanti pensano che quando si fa qualcosa per i poveri si fa loro un dono, ma non è così. Quando si fa qualcosa per i poveri non si fa la carità, si paga un debito”.
D’altro canto sono del parere che la stagione o la lezione donmilaniana non sia affatto scaduta o definitivamente superata, perché credo contenga un lascito d’indubbio valore e di assoluta attualità, come per esempio l’affermazione del ‘principio di educabilità’, vale a dire il credere che chiunque abbia le facoltà e debba essere messo nelle possibilità di riscattarsi attraverso l’educazione finalizzata a fornirgli gli strumenti per esprimere tutto il proprio potenziale. E per questo occorrono delle figure, professionali e non, capaci di infondere questa fiducia nel soggetto in formazione e predisporre le condizioni/occasioni per una palingenesi personale, etica, sociale e politica.
Inoltre, ritengo di grande attualità anche il lascito o il portato delle riflessioni di DLM sul tema della guerra e della nonviolenza, nonché a favore di un servizio civile che costituisca una valida alternativa al reclutamento e all’opzione militare. Proprio oggi, allorché tre giovani attivisti per il clima vodesi sono processati a Bellinzona dal Tribunale penale federale per aver contestato un decreto d’accusa emanato nei loro confronti dal ministero pubblico della Confederazione – peraltro non così solerte nel perseguire le propaggini della malavita organizzata, segnatamente la ‘ndrangheta’ che da anni, per non dire decenni, si è ben insediata anche in territorio elvetico –, a seguito di un articolo dove i tre giovani avevano esortato a boicottare l’esercito “per motivi di etica, morale, responsabilità ecologica e sociale”, credo che rileggere Don Milani potrebbe costituire una bella ventata di ossigeno e di chiaroveggenza.
Per quanto concerne la Scuola di Barbiana, se ne possono sintetizzare le caratteristiche salienti di estrema attualità ancora oggi, nei punti seguenti:
Se Barbiana era definita da DLM “la vera Africa della Toscana”, oggi ci sono tante Barbiana disseminate nei vari continenti, soprattutto in Africa e in America Latina. I ragazzi di Barbiana di oggi sono gli immigrati che devono imparare la lingua per acquisire diritti ed essere inclusi nel nostro contesto socioculturale, come sostiene Eraldo Affinati, che nel 2008, insieme alla moglie, ha fondato a Roma la Scuola Penny Wirton per l’insegnamento gratuito della lingua italiana ai migranti (autore di “L’uomo del futuro. Sulle strade di Don Lorenzo Milani”, Mondadori, 2017).
DLM muore nel 1967, a soli 44 anni, a causa di una grave malattia che lo attanagliava da anni, il linfoma di Hodgkin.
Non è stato un santo: alcuni tratti del suo carattere un po’ scorbutico e scostante non lo rendono simpatico, così come la sua opera e il suo pensiero non sono privi di contraddizioni, ma è proprio questa sua umanità non perfetta, ma sempre alla ricerca di un orizzonte ‘alto’ a renderlo un personaggio di grande valore, non solo nel novero del mondo religioso (del resto dovette attendere a lungo prima di un riscatto ufficiale in quel contesto: è stato Papa Francesco il primo a riconoscere formalmente la grandezza di Don Milani come “servitore di Dio, della Chiesa e dei poveri”), ma anche nel panorama culturale laico per il quale costituisce un interlocutore senz’altro stimolante.
La sua forza è stata la testimonianza dei suoi valori e del suo credo pedagogico-educativo sino all’ultimo respiro: invece di affidarsi a un personale medico-infermieristico specialistico (che la famiglia/la madre poteva tranquillamente permettersi), chiese piuttosto ai suoi ragazzi di assisterlo nell’agonia, perché voleva mostrar loro come può finire una vita (ultima lezione esperienziale sulla morte) e perché aveva bisogno di congedarsi in diretta con le persone che aveva amato più dello stesso Dio a cui si era affidato.
“Devo tutto quello che so ai giovani operai e contadini cui ho fatto scuola (…) Io ho insegnato loro soltanto a esprimersi mentre loro mi hanno insegnato a vivere”.
Fulvio Poletti è pedagogista
Nell’immagine: Don Lorenzo Milani con i suoi allievi
Bibliografia di Don Lorenzo Milani
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