Quanto vale il capitale naturale?

Quanto vale il capitale naturale?

Riconoscere il valore del capitale naturale è alla base dei vincoli morali che abbiamo verso le future generazioni


Giulia Petralli
Giulia Petralli
Quanto vale il capitale naturale?

Seguitiamo a dare per scontato che la natura offra dei servizi gratuiti e illimitati. Di conseguenza tendiamo ad assegnare un valore positivo a tutto ciò che la mette a repentaglio. Un classico esempio è il calcolo del PIL, in cui i costi supportati per risanare i danni ambientali vengono decifrati in crescita economia e, come risultato di una distorta interpretazione della realtà, il tutto è tradotto in benessere. L’aver estromesso il capitale naturale, ovvero quelle risorse che consentono alle specie umane di vivere e progredire, dai processi economici rappresenta oggi un problema da risolvere.

Partendo dall’assunto secondo cui “ciò che non ha un valore non conta” si è pensato di ovviare alla sottovalutazione del capitale naturale attribuendogli un prezzo. Per esempio, l’economista Robert Costanza ha confrontato il sovrapprezzo degli immobili sulla costa oceanica con quello nell’entroterra per misurare il valore dell’oceano. Secondo i suoi calcoli, il beneficio offerto dal servizio-mare valeva 76 dollari per ettaro. Nel complesso, Costanza stimò il valore di 17 servizi ecosistemici in una media annuale di 33’000 miliardi di dollari. Però, se lo scopo di quantificare il valore del capitale naturale è quello di evidenziarne il limite, il denaro è un’unità di misura inadatta. Dare un prezzo alla natura veicola l’idea che il suo (ab)uso possa essere compensato o commercializzato e che un bene diventa prezioso solo se utile a sostenere l’attività umana.

Più curioso dell’approccio Costanza è quello del Regno Unito, che ha dato mandato al “Comitato per il capitale naturale” di creare un piano per la conservazione delle risorse naturali nazionali. Interessante è l’idea di quantificare nella contabilità nazionale la perdita netta di stock di capitale naturale. L’inclusione di un indicatore della qualità e della quantità delle risorse perse (un deficit da risanare) nel libro contabile statale renderebbe più semplice verificare che il livello aggregato di capitale naturale resti stabile nel corso del tempo. Questo permetterebbe di controllare che la perdita di un pezzo di ecosistema venga compensata risanando o migliorando un altro pezzo di ecosistema. Se un prato dovesse essere distrutto per costruire un centro commerciale, l’acquirente verrebbe obbligato a compensarne la distruzione riconvertendo, per esempio, terreni dismessi in parchi naturali. Nel caso delle risorse non rinnovabili, la contropartita potrebbe essere quella di creare dei fondi di risparmio per le generazioni future (come fatto in Norvegia). Certo, non è così semplice e la perdita di un ecosistema non è automaticamente compensata dalle migliorie apportate da qualche altra parte, anzi. Rimane comunque un primo passo per gestire in modo più attento le nostre risorse naturali, soprattutto se si aggiungessero dei limiti al quantitativo di capitale naturale consumabile ogni anno.

Riconoscere il valore del capitale naturale è alla base dei vincoli morali che abbiamo verso le future generazioni. Modificare il modo in cui rendicontiamo i nostri averi può sembrare banale. Eppure, ci comportiamo come scialacquatori proprio a causa dell’utilizzo di indicatori incorretti che non sanno misurare ciò che conta davvero.

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