La legge di Atticus. A proposito di Mimmo Lucano
Atticus è un uomo per bene. Bianco e vedovo in una piccola città del sud degli Stati Uniti, si trova a difendere un uomo di colore ingiustamente accusato di stupro. Per spiegare...
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Atticus è un uomo per bene. Bianco e vedovo in una piccola città del sud degli Stati Uniti, si trova a difendere un uomo di colore ingiustamente accusato di stupro. Per spiegare...
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Atticus è un uomo per bene. Bianco e vedovo in una piccola città del sud degli Stati Uniti, si trova a difendere un uomo di colore ingiustamente accusato di stupro. Per spiegare alla piccola Scout, sua figlia, il senso di una colpevolezza basata su prove insostanziali, articola l’accanimento dell’accusa con parole semplici: condannare Tom è come uccidere un “mockingbird”, una creatura inoffensiva che non fa male a nessuno e il cui canto è una benedizione per gli umani. Si tratta, in altri termini di un “sin”, un peccato, un atto inutile e dannoso mascherato come giustizia. A chi vada a rileggerlo ora, To Kill a Mockingbird (Harper Lee, 1960; titolo italiano: Il buio oltre la siepe) appare come una storia sulle intersezioni tra legge e compiacenza, un abuso su basi razziali che esibisce le incongruenze di un sistema in cui le procedure giudiziarie non sono uguali per tutti.
Nel caso recente della pena comminata a Mimmo Lucano dal tribunale di Locri torna a farsi sentire la voce di Harper Lee, e non ho potuto fare a meno di pensarlo. La storia è nota. Alla fine degli anni ‘90, con l’associazione Città futura, il sindaco di Riace, navigando nelle acque opache di procedure amministrative complesse e spesso incomprensibili, elabora a suo rischio e pericolo un modello di accoglienza e integrazione che funziona. Le forzature ci sono, ma sfido chiunque abbia a che fare con la nostra amministrazione a lanciare la prima pietra. In compenso, il modello funziona, e forse questo è il guaio peggiore. Lucano diventa un modello possibile. La sua popolarità non può essere pilotata, e va dunque arginata, usando, forse strumentalmente, la legge, agitando il vessillo della sua (spesso presunta) cecità gerarchica: essa è, si dice, uguale per tutti.
Nella parabola giudiziaria durata fin qui 4 anni, le incongruenze sono copiose. Ne rende conto su Pressenza, e con lucida ostinazione, Giovanna Procacci, che da sempre segue la vicenda. Nella utile ricostruzione dei due anni di udienze, culminati in una condanna con cardini giuridici incomprensibili ai più, la sociologa rileva come le accuse di “vantaggio personale” mosse a Lucano si siano progressivamente svuotate di prove, in una deriva che pian piano ha perso ogni motivazione economica per poi rimanere agganciate a un presunto “profitto politico” mai davvero dimostrato. Lucano, in altri termini, avrebbe usato l’accoglienza come grimaldello per costruirsi una carriera politica. Che non c’è. L’accusa, rileva Annalisa Camilli su Internazionale, è basata su un “uso indiscriminato delle intercettazioni, testimoni chiave che ritrattano [Francesco Ruga, che si dice vittima di minacce poi negate], trascrizioni inesatte, sentenze ignorate”. Dopo due anni di processo, la condanna per venti reati presunti (tra cui falsità ideologica, concussione, peculato, truffa, abuso d’ufficio …) stride in modo potente con altre condanne mancate, e bizzarre dichiarazioni processuali di come certe vicende di collusione ben più palesi siano state derubricate a “fatti che non costituiscono reato”.
Non ho le competenze per valutare una sentenza che non ho letto per intero e nella decodifica della quale non saprei destreggiarmi. Avrei bisogno di un Atticus italiano che mi spiegasse la scelta di questi magistrati, che non sono TUTTI i magistrati, e questo mi preme dirlo, altrimenti si fa di ogni erba un fascio. Noto però che la discrezionalità della pena, che è esercitata dal giudice, qui punisce, con un raddoppio della punizione richiesta dal pubblico ministero, un soggetto che ha cercato vie forse incongrue e laterali per uno scopo che è sotto gli occhi di tutti: cercare di produrre, forse maldestramente ma in modo efficace, un modello di integrazione che apre una strada possibile per affrontare un problema reale. Questo problema reale sta provocando conflitti, fratture, disagi e strumentalizzazioni politiche, quelle sì, e vere, da parte di chi ha provato a ergersi come paladino degli “italiani puri”. Noto anche – con lo sguardo inerme della donna comune – che i conti non tornano. Non sembra cioè che la giustizia sia uguale per tutti e che la stessa equità di giudizio si applichi ai cittadini dello stato con la medesima, indiscutibile assenza di pregiudiziali. In sintesi noto, sempre dal mio punto di vista di donna comune, che le contraddizioni che hanno animato tutta la vicenda giudiziaria di Mimmo Lucano restano, per ora, senza risposta.
Il Riformista, in epigrafe a un articolo del 7 ottobre, cita il processo a Danilo Dolci (1956) e pubblica estratti dell’epico discorso di Piero Calamandrei. In quell’occasione, e correttamente, il giurista invoca, accanto alla dovuta applicazione della legge, anche la necessità di una storicizzazione, che è anche restituzione di valore etico e intellettuale. Sono requisiti fondamentali dell’apparato giuridico, in una polis che vuole dirsi tale.
Altrimenti si rischia quel che è mi pare sia accaduto: si uccide un “mockingbird”, e insieme a esso la speranza, e si lasciano fuggire gli avvoltoi, che come sempre abbondano.
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