“L’audizione” di Lisa Gerig: un documentario d’inchiesta che ci apre gli occhi
Il documentario svizzero dell’anno segue quattro richiedenti l’asilo nel colloquio decisivo, quello che porta all’accoglimento della domanda o alla loro espulsione.
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Il documentario svizzero dell’anno segue quattro richiedenti l’asilo nel colloquio decisivo, quello che porta all’accoglimento della domanda o alla loro espulsione.
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Il documentario svizzero dell’anno segue quattro richiedenti l’asilo nel colloquio decisivo, quello che porta all’accoglimento della domanda o alla loro espulsione.
Offerta dalla sezione luganese de I Verdi, condotta da Niccolò Castelli, l’anteprima ticinese ha avuto luogo giovedì 4 aprile. Erano presenti anche due dei protagonisti (Pascal Onana, originario del Camerun, e Demian Cornu, ex collaboratore della Segreteria di Stato della migrazione SEM).
Almeno tre le ragioni che dovrebbero spingerci a vedere il documentario:
Lungo la prassi che un richiedente l’asilo deve affrontare, è proprio questo l’appuntamento decisivo: è durante questi confronti – a porte chiuse, che possono essere più di uno e durare da 2 a 10 e persino 15 ore – che il candidato si gioca tutte le carte. Deve rispondere alle domande, spiegare, precisare, dimostrare, documentare, convincere. Deve mantenere la calma, l’autocontrollo, anche di fronte ad apparenti provocazioni e nonostante la sua sia una posizione assai fragile: con sé, oltre ai traumi psicologici, porta timore, vergogna, difficoltà linguistiche e culturali, anche se può contare su di un interprete, oltre che sul patrocinio legale gratuito.
Per verificare la credibilità dei racconti delle persone che si trovano di fronte, i funzionari del SEM sono stati formati all’uso di tecniche d’interrogatorio. Così si spiega il clima che L’audizione documenta: raffiche di domande, ripetute con insistenza, che toccano anche gli aspetti più intimi; quasi tutto è consentito per portare alla luce eventuali contraddizioni e incoerenze e per verificare i reali rischi ai quali i singoli richiedenti l’asilo verrebbero esposti in caso di rimpatrio.
Negli 81 minuti del film la tensione è costantemente alta. Ricostruiti dalla regista (che è riuscita a guadagnarsi la fiducia tanto dei candidati all’asilo che dei funzionari che li interrogavano), quelli a cui assistiamo non sono dei colloqui, ma assomigliano piuttosto – i primi a dirlo sono i quattro protagonisti – a veri e propri processi. I locali dei Centri federali d’asilo diventano aule di tribunale; gli interrogati quasi degli accusati. Visti dalla controparte, i collaboratori della SEM appaiono come freddi procuratori pubblici che scavano in profondità, esigono dettagli e prove, confondono chi hanno davanti interrompendone anche bruscamente il racconto, fanno pesare il loro potere. Chiamati al massimo rigore, conducono le danze con fare spesso sgradevole, tanto da sembrare talvolta prevenuti ancor prima di iniziare.
Per i quattro richiedenti l’asilo parlano gli sguardi, spesso fissi, abbassati o persi nel vuoto, la mimica, il tono di voce. Anche grazie a queste immagini (di Ramón Giger) e all’efficace montaggio (di Ruth Schläpfer) assistiamo a un documentario che ha, a tratti, valenza cinematografica e, come vedremo più avanti, almeno negli ultimi 25 minuti, anche teatrale.
A uno dei richiedenti, che si dichiara cieco dall’occhio sinistro dopo essere stato gravemente ferito con un colpo di manganello dalla polizia del suo Paese d’origine, il funzionario svizzero (la figura più emblematica) replica, apparentemente conciliante: “Non sono in grado di accertarlo. È davvero così?”. Un’altra richiedente si commuove, ma l’interrogante, dopo qualche secondo, interrompe l’audizione e chiede a una collaboratrice, presente in aula, di verificare quando esattamente la lacrima si è materializzata, in quale momento preciso del racconto, se sia stata o meno provocata dalla richiedente stessa sfregandosi gli occhi.
Poi però – ed è questa la sorpresa, il guizzo registico – ecco il rovesciamento, l’inversione dei ruoli. Da anni attivamente impegnata nella ONG Solinetz, diretta da sua sorella Hanna, dove ha seguito un gruppo di ospiti del Centro di detenzione amministrativa di Zurigo, sul finale, la regista cambia le regole e inverte le parti. Adesso sono gli interrogati ad interrogare chi, fino a pochi minuti prima, conduceva il gioco. Eccoli dunque provocare, a loro volta, collaboratrici e collaboratori della SEM in un crescendo degno di una pièce teatrale se non fosse tragicamente vissuto: “Comment gérez-vous le fait que la plupart des requérants l’asyle sont traumatisés?”; “Pensez-vous d’être à mesure de déterminer quelle histoire est vraie et quelle est fausse?”; per arrivare alla battuta più drammatica, quella che riassume l’intero documentario, quella che non scorderemo, della donna di Sri-Lanka: “Cette personne a le pouvoir de décider. Pour elle c’est un job, pour moi c’est ma vie”.
Bella l’idea, forse taumaturgico l’effetto sui quattro richiedenti, meno il risultato. Perché, pur permettendo loro di rovesciare addosso ai funzionari della Confederazione tutto il loro disagio, spingendoli ad immedesimarsi anche solo un po’, resta l’impressione di disparità, confermata del resto dall’ex collaboratore della SEM presente in sala: per lui essere eccezionalmente interrogato da un asilante era un gioco; per chi gli stava di fronte l’audizione, quella vera, era un passaggio cruciale, esistenziale.
Assistendo alla proiezione pensavo alla stracitata frase di Max Frisch “Wir riefen Arbeitskräfte, es kamen Menschen”. L’aveva scritta nella prefazione a un libro del regista Alexander J. Seiler uscito nel 1965. Il brano è stato pubblicato anche in italiano. Seiler (1928-2018) è uno dei padri della documentaristica svizzera d’autore: suo Siamo italiani, del 1964, in cui, forse per la prima volta, ai Gastarbeiter – che non potevano portare con sé la famiglia e potevano soggiornare in Svizzera per non più di 9 mesi all’anno – veniva data voce.
Più o meno contemporaneamente, nella Svizzera romanda, lo stesso argomento venne affrontato da alcuni tra i capifila del Nuovo cinema svizzero (Goretta, Soutter, Tanner). Seguirono La barca è piena (1981), di Markus Imhoof (cinque ebrei riparati in Svizzera nel 1942, ma poi respinti alla frontiera), o ancora Il viaggio della speranza (1990, premiato con l’Oscar quale miglior film straniero), di Xavier Koller (la tragedia di un bimbo curdo morto di freddo sul Passo dello Spluga mentre, con il papà e la mamma, tentava di entrare illegalmente in Svizzera).
Un altro, diverso precedente cinematografico in tema di stranieri e loro integrazione/naturalizzazione risale al 1978: è I Fabbricasvizzeri (Die Schweizermacher), di Rolf Lyssy, che resta in assoluto il film svizzero più visto da sempre. L’ironia caustica che attraversa quella pellicola non la ritroviamo certo in L’audizione, anche se non mancano brevi momenti involontariamente comici, come la verbalista chiamata a trascrivere qualche nome di persona o di luogo della lingua tamil, o alcune fasi del capovolgimento dei ruoli, in cui gli interrogatori condotti sui funzionari assumono i toni della parodia.
Nell’immagine: una scena del film
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