Almeno quattro anniversari tondi tondi di altrettanti giganti del Novecento caratterizzano il 2024 in ambito letterario: si avvicina anzitutto – cadrà il 3 giugno – il centenario della morte di Franz Kafka. Prima però, non fosse deceduto esattamente 10 anni or sono, il 17 aprile, avremmo festeggiato i 100 anni di Gabriel Garcia Marquez. Il 25 agosto (40 anni dalla morte) e il 30 settembre (100 dalla nascita) doppia ricorrenza anche per Truman Capote.
Restando in materia, tuttavia, a colpirmi negativamente negli scorsi giorni, è stato lo scarsissimo spazio – rispetto alla statura dell’autore – che la carta stampata europea ha dedicato a uno dei maggiori drammaturghi contemporanei, Eugène Ionesco (1909-1994), del quale giovedì scorso ricorrevano i 30 anni dalla morte. Che nostro contemporaneo, nei suoi contenuti, Ionesco non lo sia più? La sua opera è forse datata? Superata? È vero, come sempre, qualche lodevole eccezione la si trova, ad esempio nella sezione “Cultura” del sito rsi.ch con un “dossier” speciale di testi, immagini e filmati curato da Joshua Babic.
Se Naufrago è non solo sinonimo di sopravvissuto, scampato, ma anche, in senso lato, chiunque provi disagio rispetto a ciò che lo circonda, allora Ionesco non può non figurare nella sua biblioteca. In un articolo del 20 dicembre 2010 nella rivista filosofica Dialegesthai soffermandosi sui personaggi di Ionesco Silvia Lupini li definisce “affini a vuote conchiglie in balia delle onde”. Leggerlo non richiede, almeno in prima battuta, un impegno di tempo e sforzi sovrumani: i suoi testi più noti, quelli che gli hanno spalancato i palcoscenici di tutto il mondo – quasi tutti scritti in meno di un decennio, tra il 1948 e il 1959 – si intitolano, in italiano, La cantatrice calva, La lezione, Le sedie, Il rinoceronte, tradotti in italiano nella storica Collezione di teatro Einaudi.
Si tende spesso a rinchiudere un autore entro definizioni e categorie (ideologiche, politiche, stilistiche, di genere) che finiscono col diventare gabbie, se non vere e proprie prigioni. Ionesco – affiancato da Samuel Beckett – è entrato nella storia della letteratura con l’etichetta di padre del teatro dell’assurdo (ma prima di lui c’era già stato Alfred Jarry e, del resto, Ionesco stesso disse che, prima di lui, già Sofocle e poi Shakespeare avevano praticato quel genere). Anche nella riedizione francese più recente (Oeuvres, a cura di Marie-Claude Hubert, con postfazione della figlia Marie-France Ionesco, Gallimard, 2024) la definizione ricompare, ma in una chiave interpretativa più ampia: “Cette édition propose de mettre en lumière la parfaite unité et la modernité de cette œuvre avant-gardiste, en retraçant le parcours biographique, intellectuel et artistique d’un dramaturge, d’un homme en questions”.
L’uomo che si interroga, si guarda allo specchio, si mette in discussione, riflette sulla propria esistenza e sul senso da darle, sempre che esista: territorio filosofico dell’Esistenzialismo, trasposto in letteratura da Jean-Paul Sartre e Albert Camus, ai quali Ionesco per molti versi si avvicina nella sostanza se non nei toni. Un altro autore rumeno-parigino, anche biograficamente vicino a Ionesco, è naturalmente Émile Cioran (1911-1985).
La modernité, dunque: deflagrazione di tutti i conflitti, che Ionesco descrive mettendo in scena figure normalissime, che non hanno alcunché di eroico o di tragico in senso classico: non si schierano, non scelgono, non agiscono, nessun gesto eclatante, nessun guizzo, nessun colpo di coda. Donne e uomini borghesi, la cui tragedia quotidiana nel chiuso del salotto di casa, è quella di una vita che non sono loro a vivere, ma che li vive e di cui sono prigionieri: monotona, scandita da gesti, abitudini, comportamenti che li mortificano e li consumano in una ripetitività esasperante, nella prevedibilità, nella passività, nell’assenza di comunicazione, nella rassegnazione. Il dramma dell’individuo moderno che si chiude su sé stesso, si nega al prossimo, non vuole o non può aprirsi: la rappresentazione perfetta, pur se in forma di commedia, del fatto che un’esistenza può essere drammatica anche senza tragedie private particolari (malattie, perdite, lutti) o collettive (guerre, dittature, diaspore, che l’autore ha vissuto in prima persona).
Introducendo l’edizione italiana della Cantatrice calva, il traduttore Gian Renzo Morteo osserva come le opere di Ionesco rappresentino “schemi ormai senza contenuto in una società che continua a portarsi appresso le ampolle di essenze irrimediabilmente evaporate e che nel puntiglioso quanto grottesco rispetto del rituale — non per nulla l’azione ci porta in un salotto borghese — s’illudono di eludere le domande senza risposta”. Detto questo, Ionesco fa anche sorridere, ma amaramente. I personaggi della Cantatrice conversano tra loro, ma la conversazione è vuota, banale, ripetitiva: personificazione dell’incomunicabilità, della dimensione dell’assurdo e del non-senso. Un solo, emblematico esempio: Monsieur Martin che, rivolgendosi a sua moglie, le dice: “Come è bizzarro, curioso, strano! Allora, Signora, abitiamo nella medesima camera e dormiamo nel medesimo letto, Cara signora. Potrebbe forse essere lì che ci siamo incontrati!”.
Nato in Romania, trasferitosi in Francia a 4 anni con i genitori, perde ben presto il padre, che rientra in patria, dove fonda una nuova famiglia, lasciando la madre, il fratello, la sorella e lui stesso in serie difficoltà. La prima parte della vita di Ionesco è stata un continuo avanti e indietro tra Bucarest – dove si laurea in lingua francese nel 1934 – e la Francia (Lione, Marsiglia e stabilmente nella Ville Lumière dal 1945. A Parigi, già da bambino, è folgorato dagli spettacoli di marionette ai quali assiste ogni giovedì nei Jardins du Luxembourg. A Parigi, infine, è sepolto, nel Cimitero di Montparnasse, anche se la sua tomba non è oggetto di pellegrinaggi devozionali come quelle, non distanti, di suoi contemporanei (Sartre e Simone de Beauvoir, il regista François Truffaut, l’attore Philippe Noiret, i cantanti Serge Gainsbourg e Dalida).
In cambio, sempre a Parigi (dove è stato rappresentato nei templi della prosa, dall’Odéon alla Comédie-Française), sin dal 16 febbraio 1957 il Théâtre de la Huchette propone, ininterrottamente, sera per sera (lunedì escluso), nel cuore del Quartiere Latino, a due passi da Place Saint-Michel, due pièces ioneschiane – sempre le stesse, le più celebri – La Cantatrice chauve e La Leçon. Ioneschiana appare anche la ripetitività dell’appuntamento: il primo spettacolo alle 19, il secondo alle 20, in una saletta quasi minuscola, 85 posti soltanto, sempre presa d’assalto. Piccole code si formano davanti alla cassa, mentre tutt’attorno si respirano profumi di cardamomo e di kebab dai banchi e dalle cucine dei mille ristorantini “esotici” di uno dei punti più turistici della Capitale.
Sino ad oggi le repliche sono state, in 67 anni, oltre 40 mila: già nel 1979 Ionesco aveva così battuto Agatha Christie e la sua Trappola per topi (in scena a Londra addirittura dal 25 novembre 1952, ma interrotta durante il Covid), diventando primatista mondiale incontrastato. È lì, in 25, rue de la Huchette, che io stesso, durante una passeggiata scolastica in seconda liceo, ho scoperto questo geniale drammaturgo. Che detiene, in Francia, un altro primato: nel 1991 è stato il primo autore vivente ad entrare, con il volume Théâtre complet, nella Bibliothèque de la Pléiade, la prestigiosa collana di Gallimard che, sin dal 1931, accoglie i grandi classici della letteratura mondiale. Essere pubblicati nella Pléiade è la consacrazione definitiva per ogni autore in ambito francofono.
Con il nostro Paese, infine, Ionesco ha intrattenuto un legame sempre più solido soprattutto quando, dopo aver pubblicato tutti i suoi capolavori, ha chiuso con la scrittura per dedicarsi alla pittura. Già nel marzo del 1961 aveva presentato un’esposizione del suo amico pittore astrattista svizzero Gérard Schneider (1896-1986) nella piccola Galerie Im Erker di San Gallo: il discorso di Ionesco fu memorabile, poiché perorò l’assoluta inutilità tanto dei vernissages che dei discorsi che in quelle occasioni vengono tenuti. Ciononostante, circa 20 anni più tardi, lo scrittore riprese i contatti con la Galleria, che gli chiese di provare ad illustrare un suo testo. Ionesco, in quegli anni lambito da frequenti periodi di depressione, accettò e iniziò a dipingere egli stesso, trovando nella pittura un medicinale potentissimo, come racconta nel saggio autobiografico La main peint, pubblicato dallo stesso Erker Verlag nel 1987.
“A San Gallo mi sento lontano da molti pericoli, e anche se non mi sento completamente liberato da tutte le paure, la paura è certamente mitigata, più silenziosa, sono più sereno… Vengo qui in compagnia di mia moglie che, insieme a me, forse trova anche un po’ di quella tranquillità che è essenziale per respirare, per vivere, per meditare un po’, per fermarsi un attimo davanti a una vecchia casa e guardarla. Dove altro si può trovare un po’ di freschezza spirituale e, per me, un po’ di ispirazione?”.
Nell’immagine: Eugène Ionesco