Come la guerra colpisce anche l’economia israeliana
Sempre più i difficoltà, anche se la resilienza e la reazione degli israeliani per ora evita il peggio
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Sempre più i difficoltà, anche se la resilienza e la reazione degli israeliani per ora evita il peggio
• – Sarah Parenzo
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Sempre più i difficoltà, anche se la resilienza e la reazione degli israeliani per ora evita il peggio
Tel Aviv, 7 ottobre 2024. A dodici mesi dai massacri compiuti da Hamas al sud del paese, Israele non intravede la fine dell’incubo. Gli ostaggi non sono tornati da Gaza, soldati giovanissimi cadono come mosche in un conflitto senza fine che si allarga a macchia d’olio coinvolgendo nuovi inquietanti avversari, mentre missili, droni e attentati minacciano quotidianamente la vita dei civili, parte dei quali ancora sfollati dalle proprie case. Nel corso della notte i bombardamenti non hanno dato tregua colpendo anche la città portuale di Haifa, e questa mattina le esplosioni hanno raggiunto anche il centro di Israele.
A risentire di tutto questo non è solo il sistema nervoso degli israeliani, che a giudicare dai social questa notte non hanno chiuso occhio, ma anche l’economia della «start-up nation», che un anno di guerra non ha lasciato indenne. L’impatto è riscontrabile in quasi tutti i campi, a cominciare naturalmente dalle ingenti spese belliche per la difesa, che tra il 2023 e il 2024 si avvicinano a 100 miliardi dollari. Basti pensare ai costi dello scudo aereo Iron Dome, progettato per abbattere razzi e droni, e i cui missili costano circa 50.000 dollari ciascuno. Costi non indifferenti sono da attribuirsi anche al mantenimento degli sfollati e alla ricostruzione delle abitazioni danneggiate negli attacchi e bombardamenti.
Secondo le stime, il crollo significativo della produttività e del pil sarebbero da attribuirsi all’assenza dei riservisti dal lavoro. Con circa 50.000 aziende fallite, i settori più colpiti sembrano essere il turismo, l’agricoltura e l’edilizia. Per quanto riguarda quest’ultima, la causa è dovuta anche al mancato rinnovo dei permessi di ingresso agli operai palestinesi privi della cittadinanza israeliana, che fino al 7 ottobre costituivano circa il 30% della manodopera del settore infrastrutturale. Ma neppure il tanto decantato hi-tech se la passa bene e, minacciato anche dall’esodo dei cervelli, già riscontra un evidente calo di investitori.
Proprio perché il paese è in guerra, secondo la testata economica israeliana The Marker, il Ministro delle finanze Bezalel Smotrich, la cui cadenza biennale termina a dicembre, avrebbe dovuto investire per tutelare l’economia invece di “dedicarsi” anima e corpo alle colonie e alla sicurezza.
Fino ad oggi lo shekel, la moneta israeliana, ha retto discretamente, e si registra anche un aumento degli stipendi volto a rendere appetibili le posizioni vacanti. Tuttavia c’è poco spazio per l’ottimismo. Dubitando infatti della capacità di Israele di gestire il debito e mantenere la stabilità, ora che il conflitto sembra allargarsi, alla vigilia dell’esecuzione di Hassan Nasrallah l’agenzia di rating Moody ha declassato Israele di ulteriori due punti. E lo stesso vale per altre agenzie come Fitch e S&P.
Neppure i pronostici degli analisti israeliani rispetto allo scenario più probabile, ovvero del protrarsi della guerra almeno per i primi mesi del 2025, sono rosei. Aumento del caro vita, impennata di tassi e inflazione, un progressivo peggioramento delle condizioni di vita, sono già in arrivo, così come l’aumento del prezzo del carburante con effetti su benzina ed elettricità a causa del coinvolgimento dell’Iran. Se poi la guerra non dovesse terminare nel corso del 2025, le conseguenze economiche saranno estremamente penalizzanti.
A favore di Israele resta il fatto che si tratta di un paese con un’economia forte e diversificata, che ha sempre dimostrato ottime capacità di ripresa. Inoltre dal 7 ottobre la produttività non si è mai del tutto arrestata, grazie anche alla sorprendente capacità degli israeliani nel reagire alle avversità, come dimostrano le commoventi storie degli sfollati che si sono rapidamente riciclati nella ristorazione. Una delle storie più emozionanti è l’iniziativa dei “Caffè della Striscia” aperti a Tel Aviv negli scorsi mesi dai superstiti dei kibbutz come quello di Re’im, dove si vendono formaggi del caseificio di Be’eri e altri prodotti del sud, e si tramanda l’arte del cioccolataio Dvir Krap, vittima dei massacri del 7 ottobre.
Il futuro dell’economia israeliana è a rischio e molto dipenderà dall’appoggio degli alleati, dalla durata del conflitto e dall’opportunità delle scelte politiche. Auspichiamo che la fragilità economica funga da incentivo alla chiusura di accordi nel più breve tempo possibile.
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