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• 21 Marzo 2023 – Aldo Sofia
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Per affrontare la prova di forza decisa da Emmanuel Macron – scavalcare il parlamento con una sorta di legittimo ‘decreto legge’ (articolo 49 della Costituzione) che scavalca il parlamento in cui la “macronie” non ha la maggioranza assoluta e deve affidarsi al soccorso dei ‘républicains’ post gollisti – occorrono almeno tre pre-condizioni: esercitare il secondo e non rinnovabile mandato presidenziale; non essere dunque ossessionato dal vistosissimo calo di popolarità; credere fortemente ad una riforma delle pensioni considerata essenziale per la tenuta delle casse statali e perciò per il futuro stesso del paese. Requisiti indispensabili. Grazie ai quali ha affrontato lunedì sera con successo il braccio di ferro con le opposizioni della sinistra radicale di Mélenchon e dell’estrema destra della le Pen. Superando per un soffio – soltanto 9 schede in più dell’indispensabile – la mozione di sfiducia che avrebbe mandato a casa il suo governo, guidato da Elisabeth Borne, e lo avrebbe forse indotto (ma ci credevano in pochi) allo scioglimento dell’Assemblée Nationale e all’azzardo di elezioni anticipate (come fece un de Gaulle imbattibile nel 1958).

Ma una vittoria numerica, per di più sul filo di lana, e con quasi il 70 per cento dell’opinione pubblica (dicono tutti i sondaggi) contrari all’alzamento della ‘retraite’ da 62 a 64 anni, non è affatto o necessariamente una vittoria politica. Pirro insegna. E lo insegnano soprattutto le proteste, gli scontri, gli incidenti anche gravi, i numerosi arresti, l’annuncio del prossimo sciopero nazionale, che hanno segnato la notte parigina e di altre città dell’Esagono. Dove si sono saldate proteste sindacali, operaie, ma anche giovanili e studentesche. Le inaccettabili violenze e il ritorno in piazza dei ‘gilet gialli’ potrebbero spostare di un po’ gli umori dell’opinione pubblica più moderata. Ma di quanto?

E già ci si chiede dove sia finito il giovane presidente delle origini, quello che aveva umiliato e disarticolato i partiti tradizionali sconvolgendo lo schema della Quinta Repubblica, che si sforzava di comunicare e di attenuare la sua immagine di “politico senza cuore”, e che poi aveva promesso “mai più riforme cadute dall’alto”. Impegno non mantenuto; abbandonate le assemblee popolari in cui lo stesso inquilino dell’Eliseo si presentava o mandava i suoi ministri per spiegare e ‘raccogliere suggerimenti’; ma infine convinto che soltanto una determinazione sorda agli umori di un Paese che vuole difendere un diritto – considerato inalienabile ed equo nel quadro di profonde sperequazioni sociali – avrebbe potuto salvare quella che, fin dall’inizio della sua presidenza, Macron ha sempre presentato come “la madre di tutte le riforme”.

Lo “scandalo” dei due anni in più di lavoro (da introdurre entro il 2030, e innervato da una serie di misure di accompagnamento per una decina di miliardi di euro), quindi le pensioni garantite ancora al di sotto della soglia dei 65 anni d’età, probabilmente non avrebbe scatenato lo stesso livello di contestazioni in altre nazioni dell’Unione europea. Ma la Francia è la Francia. Le fiammate di ribellione sono anche nel suo dna, con la sua determinazione, i suoi successi e anche i suoi storici eccessi.

Cosa ha dunque spinto Macron, oltre a quanto già riassunto, alla pericolosa prova di forza, che ormai non si consuma soltanto dietro il colonnato e nell’aula di Palais Bourbon? Ecco cosa dicono, ancora una volta, i numeri: con un debito di 3.000 miliardi, e un sistema pensionistico che assorbe il 14 per cento del PIL, la Francia ha la più alta percentuale di spesa per i “retraités” di tutti i paesi OCSE dopo Grecia e Italia. Il tecnocrate dell’Eliseo calcola che, senza correzioni, a fine decennio le finanze nazionali dovranno su questo dossier fare i conti con un ‘buco’ di circa 14 miliardi all’anno. E ritiene che nell’attuale contesto europeo elevare di due anni l’età della quiescenza – portandola a 64 anni per garantirne la sostenibilità finanziaria – non sembra così scandaloso. C’è un’Europa del Nord, spesso indicata come modello di equità sociale, in cui si sperimenta la settimana lavorativa di 4 giorni con lo stesso salario, dove si pensa di portare la pensione addirittura oltre i 70 anni, come nel caso della Norvegia.

Ma la maggioranza dei francesi considera la riforma un “oltraggio esistenziale”, contesta la legittimità parlamentare, considera un colpo di mano la mossa dell’Eliseo, chiede l’ultima parola (attraverso un referendum?) sull’odiata riforma, soprattutto ritiene ingiusto che il finanziamento delle pensioni non pesi maggiormente sulla parte più ricca e privilegiata dalle trascorse mosse fiscali di Macron. Esasperazione e risentimento rimangono così il carburante di una protesta carica di incognite. Il presidente scommette sull’effetto dissuasivo di una crisi che in prospettiva potrebbe obbligarlo a una impensabile sua coabitazione di governo con destra e sinistra radicali. Così, il solido edificio della Quinta Repubblica ideato e costruito dal generale de Gaulle oltre mezzo secolo fa, per garantire stabilità e governabilità al paese, appare sempre più segnato da troppe, profonde e pericolose lesioni.

Nell’immagine: blocchi stradali questa mattina all’ingresso di Parigi






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