Poche ore prima del decesso di Indi, la bambina inglese di cui il governo italiano aveva chiesto il trasferimento in un ospedale di Roma, sulla vicenda Michele Serra era intervenuto nel programma "Che Tempo Che Fa", sul canale tv "la Nove". Intervento che vi proponiamo
Ci sono argomenti sui quali sarebbe molto meglio tacere, perché, come si dice, “non ci sono parole”. Ci si sente inadeguati.
Una bambina inglese di pochi mesi che sta morendo per una sindrome degenerativa irreversibile è uno di questi argomenti. Vi chiedo davvero scusa se ne parlo, ma mi ci sento obbligato. Mi ci sento obbligato dal fatto che questa tragedia privata, una delle tante nel mondo, è diventata un caso politico. È uscita dal silenzio di una stanza di ospedale in Inghilterra per approdare al Consiglio dei ministri del governo italiano. I medici inglesi hanno detto: non c’è niente da fare, non c’è cura possibile. I genitori si sono ribellati, come è umano, come probabilmente avrebbe fatto ognuno di noi, e hanno trovato immediata sponda nei vari movimenti “pro-life”, ovvero pro-vita, attivi in mezzo mondo. E che nel nostro Paese hanno una forte influenza sul governo.
E così il Consiglio dei ministri si è riunito per dare la cittadinanza italiana a quella bambina. Un atto politico polemico e clamoroso il cui esplicito significato è: la sanità inglese è spietata e vuole sopprimere una vita. Noi siamo pro-life (come se esistesse qualcuno pro-morte), e dunque siamo pronti ad accogliere quella bambina in un eccellente ospedale pediatrico, il Bambin Gesù di Roma, sottraendola alla crudeltà, o all’incompetenza, dei medici che l’hanno in cura nel suo Paese. Che la bambina non sia curabile; che non sia trasportabile; che non sia in grado di VIVERE (a proposito di pro-life) conta poco. Conta solo l’intenzione ideologica. Noi siamo per la vita. Loro sono per la morte. E conta, certo, la fede nei miracoli. Io rispetto chi crede nei miracoli. Ma preferirei, francamente, che i miracoli non diventassero una branca della medicina, o peggio ancora articoli di legge. I miracoli sono una scelta privata, come la fede.
Due osservazioni. La prima. A proposito di vita, la vita che ci circonda e che tutti amiamo, sarebbe bello che il Consiglio dei ministri, un giorno di questi, si riunisse per dare la cittadinanza italiana anche alle centinaia di migliaia di figli di immigrati che non sono al centro di nessun clamoroso caso medico o mediatico, però studiano qui, lavorano qui, pagano le tasse qui, e parlano italiano, spesso, meglio di molti deputati. Sono gli italiani del futuro, anzi del presente. Saranno anche loro a pagare le nostre pensioni e la nostra sanità. Una vera scelta pro-life sarebbe una scelta che riconoscesse l’importanza, per il nostro Paese, delle loro vite concrete.
Seconda osservazione. La vita piace a tutti e la morte non piace a nessuno. Ma la morte non può essere un tabù. È in mezzo a noi, ci riguarda. Riguarda i nostri affetti perduti, il nostro dolore, la nostra impotenza. Non ho mai capito perché questi nostri fratelli pro-life, che sono nella quasi totalità cristiani ferventi, abbiano una specie di avversione militante per la morte. Proprio loro che credono nell’aldilà, nella vita eterna, addirittura nella resurrezione della carne, perché oppongono un diniego così furibondo all’ipotesi che la vita abbia un limite? Che a volte non ce la faccia a vivere, la vita? È così scandaloso, dover morire, specie se si è costretti a vivere attaccati a una macchina?
Li rimando a Francesco d’Assisi, uno che in Dio credeva sicuramente, e al suo Cantico della Creature: “Laudato sì, mi signore, per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente può scappare”.
Perché debba essere un miscredente come me, a ricordare ai pro-life le parole di Francesco, è un bel mistero.
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