Si è parlato e si è scritto molto, nelle scorse settimane, a proposito dell’irreligiosità crescente degli Svizzeri negli ultimi cinquant’anni: più di un terzo di essi, (il 34 per cento), dai quindici anni in su, non appartiene più a nessuna comunità religiosa, perché ha perso la fede o perché non l’ha mai avuta.
Si tratta di un rilievo statistico reso pubblico proprio mentre in Naufraghi/e, ancora ignari di quelle risultanze, si era voluto dare rilievo a un corposo studio del sociologo tedesco Hartmut Rosa (della Scuola di Francoforte, quella di Adorno, Horkheimer, Habermas, gli influenti filosofi-sociologi critici della nostra società) dal titolo “Demokratie braucht Religion”, ed. Kösel, (La democrazia ha bisogno della religione) spiegandone le tesi intriganti.
In altre sedi si sono commentate quelle statistiche titolando, come ha fatto il Corriere del Ticino, un articolo di fondo con un categorico: “Sempre più atei, salvo miracoli” oppure rifacendosi (senza dirlo), al citato contributo di questo sito, trovando generose donatrici, ovviamente agnostiche, che suggerivano proprio quel saggio di Hartmut Rosa. Forse perché, pur essendosi liberati, come democristiani, da quell’etichetta cristiana troppo impegnativa per passare all’anodino Centro, faceva loro ancora comodo rianimare antichi fervori e successi.
Egitto, Egitto delle tue pratiche religiose…
“Egitto, Egitto, delle tue pratiche religiose non resteranno che storie le quali, per i tuoi discendenti, saranno incredibili!”. Come non ricordare quella “profezia” contenuta nell’Asclepio (testo latino di un perduto originale greco del II o III secolo d.C.) che ci facevano tradurre, tra l’ora di storia e quella di latino, commentata da grandi pensatori come Sant’Agostino o Lattanzio sino a Ficino. Assumeva un’importanza particolare, che non poteva non scuotere l’anima di ogni adolescente credente: sembrava infatti annunciare, con implacabile lucidità, l’avvenire certo e tragico di ogni religione. Le quali, mentre si presentano sempre come depositarie dell’eternità dei mondi, in verità non sono eterne. Sono come le civiltà, che hanno la stessa fragilità di una vita.
Una storica, Anne Morelli, ha scritto un saggio composito, ricorrendo a più voci, su questo tema (Quand une religion se termine. Facteurs politiques et sociaux de la disparition des religions, Eme editions) in cui rileva, già dall’inizio: “Ogni credente pensa che la sua religione non morirà mai, che durerà per sempre, che sono solo le religioni degli altri che scompariranno”. Prosegue sostenendo che “la religione è un fenomeno vivente. Ha quindi una nascita, una fase di sviluppo e una fine. Il declino di una religione si manifesta attraverso una serie di meccanismi comuni. Uno dei principi che può spiegarne la scomparsa – processo comunque complesso e multifattoriale – risiede nell’affermarsi di un nuovo movimento che diventa progressivamente una sorta di nuovo polo religioso di riferimento”.
Il capitalismo come religione
E già qui sarebbe quindi interessante sapere o indagare su quale altra sorta di polo religioso di riferimento abbiamo ora a che fare. Ma non lo si fa.
Forse bisognerebbe tornare a un importante e denso saggio, risalente al 1921, di un profeta dei tempi moderni, perseguitato dai nazisti come ebreo e come filosofo, Walter Benjamin, (nato nel 1892 e morto suicida nel 1940). Saggio che porta il titolo: “Capitalismo come religione” (in italiano con testo tedesco a fronte, Nuovo Melangolo,2013); e varrebbe anche la pena di recuperare in proposito le riflessioni dell’economista-filosofo italiano, storico del pensiero economico, Luigino Bruni nel suo ottimo testo “Il capitalismo e il sacro” (Ed. Vita e Pensiero, 2019).
Un saggio a lungo trascurato, che contiene però un’analisi tuttora insuperata del rapporto tra l’economia capitalistica e la religione. A Benjamin il capitalismo appare come una falsa risposta alla domanda di salvezza su cui nell’umanesimo ebraico-cristiano si era fondata l’Europa. “Nel capitalismo va individuata una religione; serve essenzialmente all’appagamento delle stesse preoccupazioni, tormenti, inquietudini a cui in passato davano risposta le cosiddette religioni”.
Per Benjamin il capitalismo è quindi una religione “in quanto fenomeno essenzialmente religioso”, tanto che alla fine la storia del cristianesimo finirà per essere quella “del suo parassita, il capitalismo, che l’ha fagocitato e trasformato”. Ed è per la necessità di avere un “culto” per poter creare una “cultura” (scrive Luigino Bruni) che il capitalismo è diventato la vera cultura (o religione) popolare di questo secolo. La forza culturale del capitalismo sta proprio nel suo essere diventato una esperienza globale, onnicomprensiva, onniavvolgente (il primo populismo moderno lo avrebbe quindi inventato il capitalismo!).
Il capo del pantheon e il destino umano
Si comprende allora che il primo idolo, il capo del pantheon dell’idolatria capitalista non è l’imprenditore, non è neanche la merce e il suo feticismo (Marx), ma il consumatore. Scendendo alle nostre latitudini, ed esemplificando, persino il conflitto tra il capitalismo e la domenica (possibile giorno di negozi chiusi) non va letto solo sul piano del turismo, degli affari possibili, dell’occupazione impropria del lavoratore, ma su quello religioso “delle scontro tra culti” (ed è quindi anche emblematico, a conferma dell’irreligiosità crescente, che poco o niente si è fatto nella comunità cattolica-cristiana per rivendicare la domenica o il giorno festivo come giorno dedicato al Signore e quindi proteggerlo dal culto capitalistico, anche se la battaglia è impari).
La conclusione è pressoché storicamente ovvia: abbiamo forse eliminato il Dio biblico, ma non ci siamo liberati dalle categorie economiche della fede che sono diventate quelle del capitalismo e avremo bisogno di una seria analisi teologica del capitalismo per capirlo e magari provare a cambiarlo. Ci sta provando con pertinacia papa Francesco, perché ne avverte la fusione e il disfacimento, ma va regolarmente incontro, emblematicamente, alle accuse di eresia, disfattismo, verdismo, sinistrismo, comunismo). Se il cristianesimo è diventato il capitalismo-religione, a che cosa serve un’altra religione quando già ne abbiamo di fatto una che, senza dogmi e precetti, ci raccomanda di essere individualisti e non comunitari, egoisti e non altruisti, bellicisti e non pacifisti, promettendoci crescita economica e benessere, con culti inebrianti e autopromozionali e non culti ripetitivi e deprimenti e colpevolizzanti?
Aggiungeva tuttavia Benjamin, in tempi tristi: “La trascendenza di Dio è caduta. Egli però non è morto, è coinvolto nel destino umano”. E qui sta sempre il punto. Richiama (e ci si perdoni l’accostamento forse improprio, che non manca però di umoristica efficacia comprensiva) ciò che leggevamo in tempi insurrezionali sui muri parigini del ’68, quando era doveroso liberarsi anche di Dio: “Dio è morto. Firmato: Nietzsche”. Un altro tizio aveva aggiunto subito sotto: “Nietzsche è morto. Firmato: Dio”. È un po’ la storia dell’umanità.