“Risorto”, dice ora di sé stesso il 77enne Luiz Inàcio Lula da Silva. Legittimo orgoglio personale. Comprensibile, dopo anni di calvario: le accuse di corruzione, la gogna del processo pubblico, la dura condanna a 12 anni, quasi 600 giorni di carcere, una serie di ricorsi, infine l’annullamento di tutte le condanne, non per assoluzione ma per vizi di forma. Un riscatto e il ritorno per la terza volta da presidente nel Palazzo Panalto. Ma, dal punto di vista politico, non proprio un trionfo, e deve esserci in Lula una forte venatura di delusione per un successo ottenuto soltanto al fotofinish contro Jair Messias Bolsonaro, il fascio-populista, primo Capo di Stato brasiliano che non ottiene la rielezione, ma che l’ha sfiorata d’un soffio dopo che tutti i sondaggi (del primo voto e del ballottaggio) lo davano per ampiamente sconfitto. Invece ha trascinato con sè poco meno della metà dei votanti. Esito che apparentemente ha dell’incredibile. I quattro anni del suo potere sono stati,
su tutti i piani, una mezza catastrofe politica ed economica. Un lascito semi-fallimentare quello del nostalgico ex ufficiale, espulso dall’esercito per indisciplina, nostalgico della dittatura militare, difensore della tortura, negazionista e disastroso nella gestione del Covid (con 700 mila morti, il più grande paese del sud America è secondo al mondo per numero di vittime), esponente dell’estrema destra anche in economia, con un programma liberista che non ha favorito il rilancio del Paese e ha invece prodotto ulteriori, profonde disuguaglianze, con un forte aumento della povertà assoluta. Come sia possibile che abbia potuto lottare fino al filo di lana è tutto da studiare e da capire.
Ma è chiaro che l’uomo che ama spostarsi su una moto di grossa cilindrata con un codazzo di minacciosi centauri non ha potuto contare unicamente su élite iper-conservatrici, agrari affamati di nuove terre amazzoniche, finanzieri legati a doppio filo alle multinazionali dell’alimentare. Non si spiegherebbe il suo risultato se a questi non si aggiungessero vaste fasce di borghesia media e piccola, e addirittura una piccola parte dell’elettorato meno abbiente, che ‘il capitano’ ha inondato di sussidi (aumentandoli del 20 per cento) negli ultimi mesi di campagna elettorale, oltre a un’alta percentuale di votanti manovrati dalle potentissime chiese evangeliche. “Ordem e progresso”, è il motto che campeggia sulla bandiera verde-oro della nazione. La voglia di ‘ordine’ è prioritaria per chi ha molto o poco da difendere, Bolsonaro ha liberalizzato l’acquisto di armi, ufficialmente ci sono quasi 5 milioni di nuovi detentori di revolver e fucili, il che non ha fatto certo calare le tensioni e le prepotenze.
Come prima preoccupazione post-voto c’è del resto il possibile tentativo che lo sconfitto non riconosca il risultato del vincente ‘presidente del popolo’: imitando il suo idolo politico Donald Trump, pensando di poter contare sui molti dei suoi sostenitori armati e soprattutto sull’incerto comportamento dell’esercito dove non mancano gli ufficiali supporter di quella che è stata definita “la destra non dittatoriale, primo esperimento del genere nell’America latina del nuovo millennio”.
E’ possibile, anzi sperabile per evitare al Brasile lacerato pagine di nuove tragedie, che in un paese dove la giustizia sembra aver recuperato la sua indipendenza, Bolsonaro debba infine gettare la spugna, lasciando il campo all’ex sindacalista Lula, l’inventore di questa sinistra carioca che non si è del tutto ripresa dagli scandali di alcuni suoi leader (con risvolti anche ticinesi, per la condanna dell’ex direttore di una Banca sul Ceresio). Il ‘presidente ritrovato’ ha genericamente promesso doverosi aiuti ai numerosi diseredati, nonché il rilancio di una politica ambientalista che metta al riparo l’Amazzonia, e le sue popolazioni autoctone, dalla deforestazione selvaggia che il suo competitore in soli quattro anni ha portato a livelli senza precedenti, a danno dell’intero pianeta e al prezzo di non poche vittime della prepotenza armata dei sicari del latifondismo. Molto di più non annuncia il programma di Lula, soprannominato non a caso ‘il camaleonte’, per la sua capacità di adattarsi anche a situazioni politiche difficili.
Nei primi due mandati, il presidente-operaio aveva governato con equità ed efficienza, in un periodo economico internazionale assai favorevole a produzioni ed esportazioni brasiliane. Stavolta per il ‘camaleonte’ sarà assai più problematico: sembra che non potrà controllare un parlamento in cui gli mancherebbe la maggioranza, la congiuntura mondiale è tutt’altro che incoraggiante, ha contro come non mai i ‘poteri forti’, e ha sconfitto un rivale che è comunque riuscito, con molte ‘fakes’ e con le solite semplicistiche astruse ricette sovraniste, a “bolsonarizzare” mezza nazione. Mettendo radici che non sarà così facile estirpare. E creando un minaccioso faccia a faccia. Oggi cristallizzatosi con la contrapposizione netta fra due parti del Brasile. Riconciliazione necessaria, ma quasi proibitiva.