I nyet di Netanyahu all’ “amico” americano
La divisione fra Israele e Stati Uniti sul futuro di Gaza fattore nuovo e imprevisto nella nuova tragedia medio-orientale
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La divisione fra Israele e Stati Uniti sul futuro di Gaza fattore nuovo e imprevisto nella nuova tragedia medio-orientale
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La divisione fra Israele e Stati Uniti sul futuro di Gaza fattore nuovo e imprevisto nella nuova tragedia medio-orientale
La guerra di Gaza interrompe questo automatismo, mette Israele e Stati Uniti su binari diversi, e dopo il primo slancio di prevedibile forte solidarietà americana per l’attacco di Hamas del 7 ottobre, rivela la distanza fra Gerusalemme e Washington. Non è un caso che i protagonisti di questo nuovo capitolo siano Benjamin Netanyahu e Joe Biden. I due non si sono mai stimati. Già dai tempi di Barack Obama (di cui l’attuale capo della Casa Bianca fu vice-presidente), quando, durante uno dei suoi numerosi premierati, proprio “Bibi” si schierò apertamente, e con iniziative anche clamorose, a fianco della successiva candidatura di Donald Trump, che una volta eletto diede in sostanza una delega in bianco all’amico israeliano nella conduzione della politica anti-palestinese. Fu Trump a favorire le prime aperture fra Stato ebraico e principati arabi del Golfo, un dialogo da cui però i palestinesi sono stati del tutto esclusi.
Così, nell’ultimo mese il premier nazionalista israeliano non ha praticamente ascoltato nessuno dei consigli del partner e protettore statunitense: non il suggerimento di “evitare gli errori commessi dall’America” dopo l’11 settembre; non la richiesta di una rappresaglia israeliana che tenesse maggiormente in considerazioni i principi umanitari; non l’invito a tregue che potessero alleviare le vitali, disperate necessità dei gazawi in fuga verso il Sud della Striscia; non il preoccupato ammonimento di evitare stragi che avrebbe infiammato le piazze islamiche, messo in imbarazzo anche la parte moderata dei paesi confinanti, compromessa o reso assai più problematica la ricerca di una soluzione regionale nel dopo-Gaza. Ma ora il dissenso israeliano contro gli Usa diventa sfida aperta: “Ci penserà Israele a mantenere la sicurezza a Gaza”, ha dichiarato il capo del governo ipernazionalista, sionista-religioso e annessionista, lasciando chiaramente intendere che, a 18 anni dal ritiro dalla Striscia decisa da Ariel Sharon, i reparti di Tsahal torneranno ad occupare militarmente Gaza. L’esatto contrario di quanto chiesto dalla presidenza americana: che il futuro di Gaza non preveda il ritorno di Hamas, ma nemmeno quello di Israele, per restituire invece ai moderati dell’OLP e di Fatah il controllo e l’amministrazione dei 300 chilometri quadrati a nord dell’Egitto, nell’ambito di un rilancio negoziale per la soluzione dei “due Stati”.
Ingenuità statunitense, che qualcuno classificherà come “perverso e concordato gioco delle parti” per garantire “l’ordine israeliano” e lasciare nuovamente i palestinesi con un pugno di sabbia e senza la prospettiva di un loro Stato più o meno tornando ai confini dell’estate 1967 (prima delle conquiste territoriali israeliane nella guerra lampo dei sei giorni). Ma stavolta l’impressione di un teatrino pre-ordinato sembra reggere poco all’analisi e alla concretezza dei fatti. Netanyahu rimane fedele a sé stesso. Ha fatto di tutto per demolire quel poco che rimaneva degli accordi di Oslo; nei suoi 15 anni di potere ha favorito spudoratamente l’insediamento di nuove numerose colonie ebraiche in Cisgiordania; e ancora poche settimane prima di quest’ultima tragica guerra, a chi gli chiedeva perché accettasse il sostanzioso aiuto finanziario – assolutamente noto – del Qatar ad Hamas aveva risposto che la sopravvivenza del gruppo jihadista serviva proprio per mantenere il disaccordo inter-palestinese ed evitare che si arrivasse alla soluzione dei “due Stati”. Una follia, come si è tragicamente visto; un calcolo senza fondamento; un fallimento su tutta la linea. Pesantissimo per la popolazione di Gaza (di cui Hamas si serve anche come ‘scudi umani’) ma anche per un trauma collettivo che peserà a lungo su Israele.
Ma c’è chi scommette che sia proprio questa l’ultima carta che “Bibi” intende giocare per salvarsi come premier, come imputato di corruzione e abuso di potere, e come responsabile politico del ‘primo pogrom che ha colpito la comunità ebraica dai tempi della Shoah”: riproporsi ancora una volta come l’uomo della sicurezza israeliana. Paradosso e ossimoro, mossa disperata e probabilmente inutile. In cui il premier ripone anche la speranza di una rielezione del super-alleato Donald Trump (se ancora lo è). Forse non è casuale che il suo proposito di rioccupazione militare di Gaza sia stato precisato proprio mentre un sondaggio del “New York Times”, per nulla ostile all’attuale presidente americano, segnalava che Trump è attualmente favorito su Biden nella non lontana corsa per conquista della Casa Bianca. Con Biden che rischia di perdere il voto dell’elettorato ebraico statunitense.
Un Joe Biden che, nonostante i buoni risultati economici, e la ricerca di un difficilissimo equilibrio nell’infinita crisi israelo-palestinese, rimane un presidente fra i più impopolari nella storia degli Stati Uniti. Superpotenza dilaniata da profonde divisioni interne. In bilico fra sfida sistemica con la Cina, guerra di Ucraina, e conflitto medio-orientale. In un orizzonte imperscrutabile.
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