Nazionalismo: vizio d’origine degli stati-nazione – 3
Riflessioni storiche su alcuni concetti cruciali alla base dei conflitti, anche quello più recente in Ucraina
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Riflessioni storiche su alcuni concetti cruciali alla base dei conflitti, anche quello più recente in Ucraina
«È evidente che il problema della costruzione se non dell’invenzione di un’identità nazionale si pone in termini di particolare acutezza ed urgenza quanto più labile ne sia il contenuto e quanto più recente è l’acquisizione dell’indipendenza o anche la rivendicazione della medesima. In certi casi tale processo segue anzi e non precede l’acquisizione dell’indipendenza e della dimensione statuale» (si veda G. Procacci, Carte d’identità. Revisionismi, nazionalismi e fondamentalismi nei manuali di storia , 2005).
Giuliano Procacci anticipa in questo modo i lineamenti conclusivi della sua accurata ricerca concernente l’insegnamento della storia tramite i manuali scolastici adottati in recenti stati-nazione, in particolare in quelli nati in seguito alla dissoluzione dell’Urss.
Strumento essenziale di questa forma di nazionalizzazione delle masse è il manuale di storia nazionale distinto da quello di storia generale. Un manuale che fa proprio della «distinzione» e della «contrapposizione» nei confronti di realtà nazionali e/o statuali «altre» criterio portante della propria narrazione. La preoccupazione identitaria, infatti, costituisce il tratto dominante di tutti i libri di testo studiati da Procacci. Una forma di nazionalizzazione, quindi, che proviene dall’alto e che s’incontra con costruzioni identitarie provenienti dal basso che però, a seconda delle diversità storiche dei differenti neo-stati, quelle reali non quelle inventate, si concretizza in composti diversi.
Il quadro di sistema in cui la nazionalizzazione dall’alto ha inserito istanze identitarie provenienti dal basso e mantenenti un notevole grado di indeterminazione è, nelle sue linee generali, lo stesso per tutta la manualistica in oggetto: a) il legame per la terra dei «padri» da cui deriva che i confini, quelli attuali del tutto casuali, sono sacri e inviolabili; b) il legame di sangue versato per conquistare e difendere la terra; c) la lingua come elemento discriminante dell’appartenenza piena allo stato-nazione; d) l’amore di patria come valore primario e assoluto.
La declinazione di tale quadro di sistema può variare anche in tempi molto brevi a seconda delle variazioni concernenti gli interessi politici delle oligarchie che hanno governato e governano le repubbliche ex-sovietiche, Russia ben compresa. Il nazionalismo grande-russo, naturalmente, è elemento determinante nella tensione tra le identità con la manipolazione costante della storia «patria». Un’identità manipolabile e manipolata, ma costruita su basi storiche reali.
Nel 1991, al momento della fondazione delle nuove statualità (il termine «indipendenza» è del tutto fuorviante rispetto al risultato di uno scioglimento consensuale gestito dagli stessi gruppi dirigenti delle repubbliche sovietiche), la strada di coltivare le pulsioni nazionalistiche era pressoché obbligata. D’altra parte, in tale contesto, il nazionalismo più spinto era, ed è, l’unica forma di legittimazione su cui quelle oligarchie possano contare con sicurezza.
I casi estremi di un’invenzione dal nulla di nuovi stati-nazione è quello verificatosi delle repubbliche asiatiche.
Nelle steppe dell’Asia centrale appartenenti all’impero russo assai spesso la popolazione non sapeva nemmeno in che cosa consistesse una frontiera. Paradossalmente, «fu il regime comunista a creare delle “unità nazionali amministrative” su base territoriale etnico-linguistica (…) in aree dove nulla del genere era mai esistito e neppur vagheggiato, come nel caso delle popolazioni musulmane dell’Asia (…). L’idea di repubbliche sovietiche basate sulle “nazioni” kazhaka, kirghisa, uzbeka, tagika e turkmena fu un’elaborazione teorica degli intellettuali sovietici» (Hobsbawn).
Nonostante che tale elaborazione teorica portasse a «unità nazionali amministrative» in cui la base etnico-linguistica era fortemente parziale e necessariamente convivente con altre realtà dello stesso genere, nessuna delle neonate formazioni che intendono essere stati-nazione mette in discussione i confini ereditati dalla costruzione sovietica. Anche il revisionismo storiografico ha dunque i suoi limiti e le sue astuzie.
Quei confini, disegnati secondo una progettualità del tutto interna alla logica di una statualità in cui l’interdipendenza di tutte le componenti era la condizione necessaria per quella che, non a caso, si è chiamata «Unione». Dopo il 1991, in un contesto che negava alle radici la razionalità della suddetta logica, quei confini sono divenuti comunque «sacri», «inviolabili», segni di identità assoluta per i quali dulce et decorum est mori.
Le oligarchie che hanno governato l’Ucraina a partire da 1991 hanno avuto con le oligarchie russe un rapporto più complesso e contraddittorio. Lo Stato ucraino del 1991 era disegnato nei confini di una repubblica sovietica, con i confini già modificati dalla «donazione» della Crimea da parte di Krusciov, l’ucraino segretario generale del Pcus, nel 1954, trecentesimo anniversario di quel trattato di Periaslav che aveva rappresentato l’unione dei popoli slavi: ucraini, bielorussi e russi. La «donazione», quindi, era stata fatta in una logica che niente aveva a che fare con una nazione basata su una qualsivoglia identità etnico-linguistica. Proprio per questo i governanti del nuovo Stato avevano la necessità di legittimarsi tramite la costruzione di una «ucrainità», intesa come un dato naturale e astorico. I manuali scolastici «nazionali» diventano, allora, lo strumento privilegiato di questa operazione.
Un’ «ucrainità» che si vuol far coincidere (a forza) con la «nazione» (?) casualmente interna ai confini del 1991.
È una situazione per molti versi simile a quella dell’Europa dopo i trattati di Versailles del 1918: «La maggior parte dei nuovi Stati edificati sulle rovine dei vecchi imperi risultarono altrettanto “multinazionali” delle vecchie “prigioni delle nazioni” che avevano sostituito. (…) Il cambiamento più rilevante consistette nel fatto che gli Stati erano adesso mediamente più piccoli, e che i “popoli oppressi” al loro interno, adesso li si chiamava “minoranze oppresse”» (Eric J. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismi, 1991). E si scoprì che il nazionalismo delle piccole nazioni mal tollerava le minoranze proprio come quello che Lenin aveva chiamato «sciovinismo da grande nazione».
Così nella costruzione della «nuova nazione» non più imprigionata nell’unità statuale da cui ha, peraltro, mutuato confini e realtà etnico-linguistica eterogenea, non è possibile permettere a minoranze di avere condizioni politico-culturali che possano portarle a rivendicare, a loro volta, l’«autodeterminazione».
Per evitare che le minoranze possano considerarsi «popoli» è necessario imporre l’ufficializzazione a tutti i livelli dell’esercizio politico-amministrativo della lingua in cui si esprime la maggioranza. È necessario imporre la discriminazione su basi linguistiche, diffondere la glottofobia, cioè alimentare uno stato di guerra civile prima latente, poi a seconda delle contingenze politiche, interne ed internazionali, passibile di trasformarsi in guerra civile armata.
Il lungo percorso analizzato da Hobsbawm di questo tipo di nazionalizzazione dall’alto delle masse in periodi storici diversi ci permette di cogliere analogie e differenze. La vicenda della costruzione non di una ucrainicità storicamente reale, ma mitologicamente astorica, può ritrovarsi bene nella seguente osservazione del grande storico inglese: «Nella misura in cui questi sentimenti non erano creati dal nulla bensì adottati e accuratamente coltivati dai governanti, i governi che realizzarono questo tipo di operazione diventarono specie di apprendisti stregoni».
Poteva succedere, come è successo, che nello spirito del battaglione Azov e assai vasti dintorni, ci si vedesse la furia combattiva dei supposti «protoucraini», dei «colonnelli» alla Taras Bulba, così come descritti da Gogol (ucraino? russo?). Nella cosacca Sič di Zaporižžja si diceva: «Che razza di zaporozets può essere [un giovane] se non le ha mai suonate ad un miscredente? Il «miscredente» è, naturalmente, la personificazione dell’alterità assoluta. Continuità di quello spirito materializzatasi tramite il medium Stepan Bandera, non casualmente insignito dell’Ordine della Stella d’oro e proclamato Eroe dell’Ucraina nel 2010 con decreto del presidente Viktor Juscenko, «per aver difeso le idee nazionali».
Nell’immagine: Alighiero Boetti, Mappa (dettaglio), 1983
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