Il frate “liberale” e i Giochi olimpici
Come un padre domenicano “ribelle” suggerì a de Coubertin, fondatore delle Olimpiadi moderne, la formula che regge la filosofia dei Giochi olimpici
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Come un padre domenicano “ribelle” suggerì a de Coubertin, fondatore delle Olimpiadi moderne, la formula che regge la filosofia dei Giochi olimpici
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Come un padre domenicano “ribelle” suggerì a de Coubertin, fondatore delle Olimpiadi moderne, la formula che regge la filosofia dei Giochi olimpici
C’è un fatto, che tocca la “filosofia atletica”, che i più ignorano o preferiscono dimenticare (considerate anche le polemiche seguite alla rappresentazione parigina, che hanno coinvolto l’attuale maggiore e miglior storico di Francia, Patrice Boucheron, che è stato chiamato come esperto per le rievocazioni e le immagini storiche). Un fatto che val la pena ricordare: il motto dei Giochi olimpici è stato suggerito a Pierre de Coubertin (il fondatore delle Olimpiadi moderne) da Henri Didon, un frate dell’Ordine dei domenicani. Ne racconta biografia e storia Yvon Tranvouez in un libro apparso alla vigilia dei Giochi (Plus vite, plus haut, plu fort. Le père Didon, inspirateur de Jeux olympique, éd. du Cerf, 2024).
Henri Didon (1840-1900) era direttore della scuola Albert-le-Grand ad Arcueil dal 1890 e, assai moderno per la sua epoca, poneva grande attenzione al corpo nell’educazione. Nel gennaio del 1891 riceve in visita Pierre de Coubertin, che milita e si dà da fare per l’estensione delle discipline atletiche negli istituti scolastici e nell’organizzazione di competizioni tra gli istituti. E, infatti, quella visita porta immediatamente alla creazione dell’Associazione atletica Albert-le-Grand alla quale il padre domenicano (stando a ciò che racconterà lo stesso Coubertin) dà per motto la famosa formula, così folgorante nella sua concisione latina: citius, altius, fortius. Didon la parafraserà nei termini: correte più in fretta, saltate più alto, colpite più forte. De Coubertin vi vide subito la sintesi di “tutta la filosofia atletica”.
Giustizia sia quindi resa a quel padre domenicano. Anche perché, religioso conosciutissimo, predicatore eccezionale che attirava e conquistava gli ambienti più culturalmente vivi di Parigi, proposto anche per la prestigiosa cattedra di predicatore quaresimale di Notre-Dame, fu ritenuto personaggio incontrollabile, ingestibile e indomabile dai suoi superiori e fu quindi continuamente osteggiato e punito, tanto da essere esiliato in un convento di Corbara, in Corsica.
Tranvouez nel suo libro descrive appunto la storia di un religioso “non conforme” della seconda metà del XIX secolo. Didon è infatti ritenuto un “liberale” in un tempo in cui è deprecabile esserlo, in una Chiesa cattolica “intransigente”, in cui il Sillabo di Pio IX (1864) enumera il lungo catalogo degli errori intollerabili, da condannare (come i princìpi fondamentali di libertà di pensiero, di coscienza, di stampa, di culto, la laicità dello stato) e proclama l’infallibilità del papa. garante dell’ortodossia cattolica (1871), e sono frequenti le apparizioni mariane (mentre Didon manifesta le sue preferenze per Maria Maddalena). L’ossessione del padre domenicano è il “moderno” e la sua angoscia l’abisso che si sta creando tra la Chiesa e il mondo. Bisogna invece essere “liberale e moderno” poiché il Vangelo sa rilevare la sfida del “mondo moderno” senza per questo lasciarsi prendere dal mito di un progresso che “scuote, rovescia, polverizza tutto”.
Nell’immagine: Henri Didon
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