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• 22 Gennaio 2022 – Redazione

Nel periodo elettorale i contributi di candidate e candidati sono benvenuti sulla nostra zattera secondo queste regole

Pubblichiamo la prefazione dello storico e giornalista Pietro Montorfani al libro “Diario” di Bruna Cases (edizioni Abendstern e a cura di Simona Sala). La piccola Bruna, ebrea, riuscì ad entrare in Svizzera attraverso il confine nei pressi di Stabio, salvandosi così dalle deportazioni naziste. Nel libro, basato sul diario che la ragazzina scrisse durante la sua permanenza in Ticino, viene ripercorsa una straordinaria vicenda umana, che fa parte anche della nostra Storia. Lunedì prossimo 24 gennaio, nella settimana in cui ricorrerà il ‘Giorno della memoria’, Bruna Cases tornerà dopo 79 anni nei luoghi in cui nell’ottobre del 1943 riuscì a mettersi in salvo, e rievocherà la sua vicenda nel corso di una diretta streaming che andrà in onda sul sito di ‘Naufraghi/e” dalle 14.00 alle 15.00.


Il pericolo maggiore, nel rileggere oggi le pagine manoscritte di Bruna Cases, sarebbe quello di ritenerle una fiaba d’altri tempi, lontana da noi, ambientata in una dimensione quasi mitica. Il candore della bambina di 9 anni che sintetizza in poche frasi un’esperienza drammatica mentre la vive è assieme commovente e anestetizzante: «L’Italia era occupata a nord dai Tedeschi e a sud dagli Inglesi, ma gli ultimi procedevano adagio adagio. Intanto i Tedeschi maltrattavano gli Ebrei; appunto noi eravamo di questi».

Cresciuta in una famiglia benestante nella Milano degli anni Trenta, la piccola Bruna attraversò il confine nei pressi di Stabio nell’ottobre del 1943, quale parte di un gruppo composto da una dozzina di persone che non era altro se non una goccia del grande fiume di profughi (non solo ebrei) che cercarono di riparare in Svizzera dopo l’armistizio dell’8 settembre.

Attraverso i suoi occhi di bambina cogliamo particolari interessanti di quei giorni di incertezza: «Le notti le passavamo ansiosi aspettando i contrabbandieri che dovevano condurci al di là della frontiera. Finalmente vennero. Erano in due: ognuno di loro aveva una rivoltella; il capo, Guido, aveva un berretto di pelliccia bianca con in mezzo una croce nera». Dettaglio curioso, quest’ultimo, che richiama alla mente simbologie funeste (un cappello rubato a un nazista? il consapevole emblema di un anarchico?) e spalanca l’abisso su quella zona grigia che abbiamo imparato a conoscere grazie agli scritti di Primo Levi, così lucidi nel mettere a fuoco la multiforme identità di collaborazionisti, approfittatori, arraffoni d’ogni genere, piccoli criminali che già avevano fatto un passo, o più d’uno, su una strada percorsa anche dai peggiori assassini. La famiglia Cases, non bisogna nasconderselo, passò il confine perché disponeva di risorse finanziarie che altri non avevano: fu in grado insomma di nutrire quella zona grigia e di garantirsi un sostentamento in Ticino per oltre un anno e mezzo, fino al definitivo rientro in patria nella primavera del 1945.

Una generale atmosfera di speranza e riconoscenza attraversa queste pagine, così diverse da quelle scritte da un’altra ragazza il cui destino avrebbe potuto essere simile a quello di Bruna, e che fu invece terribile: rimbalzata negli stessi giorni da guardie di confine svizzere prive di tatto, Liliana Segre finì ad Auschwitz dove perse subito il padre e iniziò un’odissea che la segnò nel profondo per anni a venire. La vicinanza tra le due storie, per età delle protagoniste, epoca dei fatti e persino per geografia (pochi chilometri separano i due valichi di Stabio e di Arzo), non può che farci riflettere. Entrambe vanno tenute presenti, perché entrambe contribuiscono a ricostruire un contesto storico non lineare, in cui le responsabilità dei singoli e delle istituzioni erano costantemente sollecitate da più parti, e in cui l’umanità si manifestava in tutta l’ampiezza delle proprie contraddizioni. Ricordare soltanto una di queste due storie rischierebbe di compromettere quell’equilibrio interpretativo, quella capacità di tenere viva la complessità, che è in fondo uno dei compiti principali del mondo della scuola. Negli ultimi decenni, a seguito delle conclusioni un po’ monocromatiche del Rapporto Bergier, nel quale sono stati registrati indiscriminatamente tutti i respingimenti, ma anche grazie alla forza empatica di molti testimoni cui è stato negato l’asilo, la Svizzera si è vista porre sotto gli occhi tutte le sue responsabilità. Se si è scelto in questo caso di dare voce a una storia diversa, non è per la passione disneyana per i «lieti fini», ma per dare a ogni tipo di testimonianza pari diritto di cittadinanza. La loro interpretazione, il loro valore, l’ombra o la luce che queste proiettano verso il futuro, passano dalla nostra capacità di accoglienza e di ascolto.

Pietro Montorfani






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