Cielo o terra, l’intelligence americana deve avere occhi e udito sensibili in terra russa. Pochissimi giorni prima del 24 febbraio 2022, i “servizi” di Washington fecero dire al presidente Biden che Putin si apprestava ad attaccare l’Ucraina: proteste di Mosca, scetticismo di apprezzati geo-strateghi occidentali, Usa attaccati dal pacifismo anti-atlantico con l’accusa di voler creare un guerrafondaio clima di panico. E invece l’invasione ci fu. Mini replica all’inizio di questo mese: il 7 marzo l’ambasciata statunitense nella capitale russa dirama un‘allerta, chiede ai suoi connazionali che vivono nella Federazione di stare alla larga da raduni e spettacoli per il rischio di attentati, e il Cremlino parla di “propaganda”. Invece, di nuovo, allarme statunitense azzeccato: pochi giorni dopo gli attentatori puntualmente colpiscono, dando il facile assalto al “Crocus City Hall” (mega impianto teatrale, con oltre sei mila posti), alla periferia nord della capitale, provocando una mattanza di innocenti in un quadro regionale e complessivo già incandescente.
Immagini che riportano al Bataclan parigino del 2015, e ancor più al ricordo di oltre vent’anni fa, quando altre stragi in terra russa di marca islamico-cecena, a volte risolte brutalmente e tragicamente dall’intervento della polizia, seminarono vittime in un altro grande teatro moscovita e in altre città. Lungo e terribile rosario di attacchi. Attacchi (come segnala dettagliatamente l’ex corrispondente a Mosca della BBC, Philip Short, nel suo saggio “Putin, una vita, il suo tempo”) almeno in parte vennero attribuiti da varie fonti e documenti ad intrighi dell’FSB, sigla dello spionaggio interno russo, teoricamente per favorire il clima necessario per fornire, all’allora neo-presidente ed ex KGB, il pretesto della feroce offensiva che inaugurò la seconda guerra di Cecenia : al prezzo complessivo di almeno circa centomila morti (per lo più civili) e Gorzny ridotta in macerie, in un mini-Stato di poco più di un milione di abitanti. “Andremo a prenderli anche in fondo al cesso”, fu la celebre e muscolare promessa di Vladimir. Così come in queste ore il vice-presidente della Commissione di sicurezza, Medvedev, in un’altra delle sue consuete e altisonanti minacce (anche atomiche) ha affermato che se il sanguinario assalto al “Crocus” rivelasse una regia ucraina, “andremmo a Kiev a prendere Zelensky”.
Comunque, se autentica, l’unica rivendicazione arrivata, quella dell’Isis Khorasdan (basi in Pakistan e Afghanistan, concorrenti-nemici anche dei Talebani) potrebbe aprire un altro fronte di guerra. Quello proveniente dalla galassia islamica del Caucaso. In eventuale ricerca, a sua volta, di vendetta: per le vittime della repressione cecena; per i tragici bombardamenti russi in Siria a sostegno del dittatore Assad e delle ambizioni regionali e antiamericane; e – perché no? – per i proscritti che l’esercito russo ha usato a piene mani nella guerra ucraina, provenienti da regioni periferiche povere e musulmane della periferia dell’ex impero, facendone carne da macello soprattutto nel primo anno della cosiddetta ”operazione militare speciale”.
Memoria lunga, quella degli islamisti, caucasici e non solo. Che puntano a una nuova edizione di Stato islamico attraverso tre confini di altrettante ex repubbliche sovietiche d’Asia; e che forse sono stati ispirati/incoraggiati dalla barbarica offensiva di Hamas del 7 ottobre, dalla reazione furibonda, spropositata e ancor più disumana di Israele su Gaza (il caos è il mare preferito in cui nuotano terroristi in cerca di comodi, utili bersagli); e che non disdegnano le minacce di una guerra mondiale (eventualmente ultima, perché atomica) in cui ritengono di potersi ritagliare meglio i confini di un loro futuro regno teocratico.
Se così fosse, se da lì viene realmente l’attacco portato nel cuore della Federazione russa (condizionale obbligatoriamente da sottolineare), in realtà sarebbero guai e rompicapi anche per Vladimir Putin. Guai nel poter organizzare una replica militare in un territorio caucasico vastissimo; guai se si tratta di intervenire e penetrare disinvoltamente in nazioni ormai orgogliose dell’indipendenza aperta dal crollo dell’Urss (“massima tragedia del ventesimo secolo”, secondo la sentenza storica del neo-zar). Quindi, e conseguentemente, guai per i suoi progetti di già problematica alleanza sostitutiva post-sovietica (anche economicamente) e alternativa a quella occidentale.
Dilemmi e difficoltà che potrebbero quindi e forzatamente incoraggiare il presidente-autocrate russo e prendere in considerazione altri bersagli. Bersagli più agevoli. Per esempio i combattenti nazionalisti anti-Cremlino che colpiscono il territorio della Federazione partendo da ‘santuari’ in Ucraina. Ecco, l’Ucraina. Che, in studiata sincronia con la Casa Bianca, pochi minuti dopo l’irruzione terroristica nel “Crocus” già proclamava la sua totale estraneità. Ma che obiettivamente è il bersaglio meno problematico e più internamente più popolare per il leader neo-rieletto solo una settimana a ‘furor di popolo’.
Così, qualche commentatore ricorda oggi che “bastò la pallottola di Sarajevo” (giugno 1914, assassinio di Ferdinando Francesco, erede al trono del regno austro-ungarico) per accendere la miccia della prima guerra mondiale. Esagerato? Ma è “esagerato” anche questo mondo nel suo precipitoso e irrazionale rincorrere pericoli globali mai visti negli ultimi ottant’anni.
Nell’immagine: la sala da concerti Crocus (immagine di repertorio)