Torna nelle piazze, e speriamo che ci rimanga fino a quando sarà necessario. È il pacifismo. Muto da anni. Molti anni. Ci fu qualcosa per la guerra in Iraq. Ma nulla o troppo poco per la tragedia che dilaniò l’ex Jugoslavia, che per l’Europa e per ora rimane il peggio dai tempi della seconda guerra mondiale: lo è stato per numero di vittime, per ferocia nazionalista, per la violenza delle pulizie etniche, per distruzioni, per scombussolamento della carta geografica balcanica. Poi il silenzio. Su tanti altri teatri di conflitto, su altre stragi, su altre (tantissime) vittime. Solo indifferenza, nonostante il profluvio di terribili immagini? Non proprio. Allora stanchezza? Assuefazione? Senso di impotenza? Possibile. Possibile anche che comunque si trattasse di un’elaborazione incompleta, parziale, mutilata; l’idea che quelle armi, quelle bombe, quei massacri fossero cose lontane, cose d’altri, da tenere a distanza.
Tranne poi scoprire che era auspicio irrealistico, impossibile; e scoprire che la Storia (soprattutto, o quasi sempre, quella peggiore) esonda, defluisce dai suoi confini iniziali, ti coinvolge, e ti interroga. Profughi: poca accoglienza, troppo filo spinato lungo i nostri confini e attorno alle nostre paure, comprensibili ma spesso irrazionali e pesantemente strumentalizzate per gli slogan che ancora gonfiano le vele dell’intolleranza. Fors’anche, anzi probabilmente, perché quei poveracci in fuga provenivano da terre martoriate da fame e altre guerre ma anche terre d’Islam, indicato come il nuovo nemico, il grande allarme, convinzione alimentata anche dal jihadismo dei tagliagole che colpirono le città europee. Più che sufficiente a cancellare anche i risultati mai abbastanza segnalati dell’integrazione possibile, come è documentabile da quel milione arrivato nella Germania merkeliana in un momento (2015) di generosità, e di lucidità.
Oggi è diverso. L’Ucraina aggredita dal signore del Cremlino non è la Siria, non lo Yemen, non l’Iraq, non la Libia, non l’Africa. Certo, si tratta di ‘commozione a geometria variabile’, e può non piacere. Gli ucraini li senti ‘nostri’. Come avvenne per gli ungheresi del ’56, per i cecoslovacchi del ’68. Religione cristiana, giovani e adulti che potrebbero confondersi senza suscitare curiosità preoccupata fra i pedoni delle nostre città, confini non più blindati, con paesi della Vecchio Europa. In parte (sì, in parte) fu così anche con la gente scappata dalla ‘macelleria’ balcanica, che portavano comunque le stigmate di un conflitto feroce e ancor più enigmatico. Ancor più incomprensibile.
Adesso nella stessa Russia si registrano eroici gesti di protesta pubblica (con l’ex presidente Medvedev che auspica la pena di morte per chi osa). Adesso le piazze occidentali tornano ad affollarsi. Accade in tutta Europa. Certo, nulla di paragonabile con quelle degli Anni Settanta, quando vi fu la grande mobilitazione contro il dispiegamento all’Ovest degli euromissili Pershing e Cruise, per fronteggiare gli SS-20 sovietici (con il problema, segnalò l’allora cancelliere Helmut Schmidt “che di là ci sono i missili. Ma comunque le voci contro la guerra tornano a farsi sentire. In alcune città, a decine di migliaia, bandiere della pace insieme a quelle ucraine. Anche perché dopo pochi giorni di spari, bombardamenti, vittime, rifugi pieni, fiumi di fuggiaschi, e anche di una resistenza armata più tenace del previsto, c’è più consapevolezza della gravità di quanto sta accadendo, anche per noi e per la nostra quotidianità, pure economica. E più consapevolezza di cosa significhi la logica sopraffattoria e l’attacco, sul teatro europeo, alla pur imperfetta difettosa democrazia, e sappiamo quanto quella ucraina abbia conosciuto ombre e ambiguità e distorsioni. Democrazie fragili, le nostre, che necessitano trasformazioni sostanziali anche in fatto di equità e giustizia sociale. E non è per nulla strano o casuale che l’offesa alla possibilità di riuscirci venga in questo momento proprio da un autocrate come Putin che definisce ‘obsoleti’ i regimi parlamentari, in sintonia col suo (provvisorio) sodale cinese Xi.