A scanso di equivoci e fraintendimenti diciamo subito quel che dicono tutti: valutazioni più ponderate si devono fare a bocce ferme, quando i dati, seggi e percentuali in più o in meno, saranno definitivi . Certo, sacrosanto e doveroso, ma intanto va anche detto che le bocce non ancora ferme per ora girano alquanto, in diverse sedi di partito, dove si stanno già facendo i conti con scoppole sciagurate, annunciate dall’esito elettorale per il Consiglio di Stato e confermate dai risultati per il Gran Consiglio.
Il Partitone storico, PLR, non ottiene nulla di quel che si aspettava il presidente Speziali, anzi è in perdita e deve osservare che l’altro partito storico, Il Centro, tiene bene. In casa leghista i musi sono lunghi almeno quanto i peana di queste ultime settimane: insomma, in Via Monte Boglia “la si sentiva arrivare” ed ora sono tutti lì a dire che la Lega si è troppo “istituzionalizzata” e che invece deve tornare ad essere quella delle origini, “barricadeira”. E perché? Ma perché fra attitudine e responsabilità governativa ed impulsi all’opposizione cavalcando i malumori, ha saputo giocare molto meglio l’UDC, il partito che “istituzionalizza lo scontento” non solo in Ticino, giostrando abilmente su due tavoli diversi, ad immagine e somiglianza del suo presidente cantonale e consigliere nazionale, Piero Marchesi (ma anche Maurer, non è stato certo un dilettante nell’esercizio).
Nella loro stravagante “alleanza”, Lega e UDC hanno in fondo, ciascuna, ottenuto quello che volevano: la riconferma dei due Consiglieri di Stato l’una, un netto aumento dei granconsiglieri l’altra; certo, resta da capire quanto Bignasca e soci possano digerire che gli “amici” udicini siano così vicini, ormai, nella rappresentanza parlamentare e quanto questo possa proiettarsi verso i prossimi appuntamenti elettorali: insomma, in autunno la Lega appoggerà ancora Chiesa? E nella primavera prossima, a Lugano, con l’ombra dello stesso Chiesa ad incombere, continueranno ad andare d’amore e d’accordo (anche fra una pistolettata e l’altra)?
Il fatto è che anche per il Gran Consiglio l’esito elettorale appare come frutto se non di una protesta dell’elettorato (che sarebbe troppo dire) almeno come lo specchio di una disaffezione crescente verso gli schieramenti tradizionali, quelli “di governo”, per intenderci, compreso il PS che più degli altri deve fare i conti con una strategia elettorale che non l’ha minimamente premiato.
Diciamolo chiaramente, il “progetto” di alleanza a medio e lungo termine all’insegna del rossoverde, che aveva persuaso militanti e base dei due gruppi non ha per nulla incontrato il favore degli elettori “di area”, anzi, tutt’altro. E va pure chiaramente detto che in casa PS (e poi anche dei Verdi) vi sono state troppe ambiguità in una campagna che, in nome di una scelta di fondo sui temi, è stata costellata di episodi dal sapore personalistico, con la resa dei conti del Congresso di novembre, che hanno espresso un segnale perlomeno contradditorio, mal digerito, per finire, da chi è andato a votare (e sopportato ancora meno da chi non li ha più votati o non ha più scelto alcuna lista, o se n’è rimasto direttamente a casa senza neanche votare).
Quella che si può chiamare, appunto, disaffezione, ha forse la sua prima spiegazione proprio in questi aspetti, che i vertici di PS e Verdi tendono ad attribuire ad un problema di comunicazione, ma che francamente erano lì da vedere da mesi come pericolosamente autolesionistici.
Che il PS abbia portato in Governo una donna, bene, che sia Marina Carobbio, bene, ma alla fine per tutti sembra che questo rimanga l’unico risultato (ampiamente garantito da tempo) di quella che si voleva fosse “la grande novità” di queste elezioni. Certo, la prima ministra rossoverde, certamente porterà in Governo tutta la sua lunga e profonda esperienza politica nazionale, ma indurrà, per prima cosa, l’esecutivo a discutere se indire o meno le “suppletive” per sostituirla agli Stati, con la possibilità che si torni a votare al più presto per una pura formalità oppure che si lasci vacante per sei mesi uno dei due seggi ticinesi alla Camera alta.
E intanto, in Parlamento, siederanno meno esponenti piesse (con la possibile esclusione di qualche commissario) e i Verdi sono a rischio perdita dello statuto di Gruppo (e dunque fuori dalle commissioni). Un Parlamento che a sinistra avrà ancora qualche sparuto esponente delle irriducibili minoranze di “opposizione”, ma che si è ampiamente spostato a destra anche con l’entrata in scena (è il caso di dirlo) del partito ibrido di Amalia Mirante (così l’ha definito, in tutte le sue coerentemente ibride esternazioni post-elettorali). Un emiciclo che andrà avanti a discutere iniziative e rapporti di Pamini, Morisoli e compagnia bella, sempre meno contrastati, e forse ad affrontare temi di fondo istituzionali, come la soglia di sbarramento o il passaggio al maggioritario.
A questo proposito, un po’ provocatoriamente: viene da sperare che davvero si entri nel merito di una alternativa a questo meccanismo elettorale proporzionale che obbliga al consociativismo. Se ne discuta, almeno, anzitutto in casa rossoverde: forse sarebbe il caso di pensare seriamente che ci sarebbe davvero anche la possibilità andare all’opposizione (costruttiva, certo), come non lontano da noi sta facendo, seriamente, la “ticinese”, Elly Schlein. Perché non pensarci su? Che c’è da perderci?
Nell’immagine: 12 partiti in GC. Il panorama politico ticinese è più frammentato che mai