“Tutto ciò che non è irrimediabile”. Mantra e previsione degli esperti geopolitici. Cioè: gli ayatollah non potranno non reagire al blitz che ha decapitato (colpendo chirurgicamente il loro consolato a Damasco) la centrale di coordinamento delle operazioni sciite contro Israele, dal Libano allo Yemen; ma avrebbero “calibrato” la rappresaglia per non dover subire un contrattacco durissimo da parte di “Tsahal”, con conseguente allargamento del conflitto.
Nei fatti, pronostico azzeccato, ma solo a metà. Gli scenari più gettonati prevedevano infatti che venissero colpiti obiettivi importanti ma fuori dallo Stato ebraico, come avvenuto in altre precedenti circostanze (ambasciate, atti terroristici contro esponenti delle comunità ebraiche, eccetera) Invece stavolta Teheran ha mirato direttamente il territorio di Israele.
Una prima assoluta nel decennale scontro fra Repubblica islamica e “entità sionista”, come viene definita dalla teocrazia. Utilizzando nella notte centinaia di droni – di cui Teheran è gran produttore e venditore alla Russia dell’alleato Putin – e missili balistici a lunga gittata – che spera di poter equipaggiare presto con testate nucleari. Inedito non da poco. Rompe comunque un tabù. Di bugiarda ambiguità. Di guerra per procura, attraverso quei fili che dalla Siria all’Irak, dallo Yemen al Libano fino a Gaza, politici e ufficiali iraniani manovrano e irrobustiscono a piacimento assegnando loro appunto il “lavoro sporco”, o di “prima linea”. Un teatro, un gioco delle parti sempre più evidente.
Ma stavolta la guerra per procura non poteva funzionare. Non poteva bastare. Già colpiti diverse volte, in patria e fuori, in modo efficace e simbolico, dalle iniziative militari di Tel Aviv, gli eredi di Khomeini ci dovevano mettere la faccia. Pena un’incancellabile, disastrosa mortificazione anche politica, di immagine. Insostenibile. E perciò hanno puntato al bersaglio grosso. Direttamente al nemico. Il “come” è ancora da esaminare nel dettaglio. Ma impressione diffusa a poche ore di distanza è che anche questa mossa, portata sopra la ‘linea rossa’ invalicabile per non finire direttamente nel corpo a corpo con la forza israeliana (che, non dimentichiamolo, è anche nucleare: una trentina di ‘bombe’ sono pronte nella regione di Dimona) può essere stata calcolata con cura.
Attacco massiccio, esibizione muscolare massima: ma – appunto – “niente di irrimediabile”. Lenti e minacciosi droni abbattuti in massa sopra il cielo israeliano e dintorni (quindi spazi aerei di paesi arabi), distruzione di quasi il cento per cento anche dei missili, grazie all’ “Iron Dome” (“cupola di ferro” predisposta dagli Stati Uniti) nonché all’intervento di caccia britannici e americani. Bilancio noto al momento di scrivere: un bambino israeliano ferito.
I generali pasdaran e la guida spirituale Khamenei non potevano non sapere quale sorte sarebbe toccata al loro iniziativa militare in termini tecnici. Letteralmente sbaragliati, garantisce Israele. Ma interessava loro soprattutto l’effetto politico: attacco neutralizzato ma orgoglio politico ristabilito agli occhi del mondo, e certo sull’effervescente piano interno. Senza sperabilmente contro-rappresaglie israeliane, e relativo viaggio verso l’abisso di un conflitto allargato: che porterebbe oltretutto al coinvolgimento dei fratelli-nemici sunniti, dall’Arabia Saudita al Golfo, a cui l’indebolimento della cittadella sciita sta in realtà a cuore.
Calcolo rischioso, certo: da anni Benjamin Netanyahu chiede agli Stati Uniti la possibilità di un “colpo preventivo” contro i persiani che hanno “circondato” lo Stato ebraico con la loro rete nemica eterodiretta da Teheran (e sfociata nell’assalto terroristico di Hamas l’8 ottobre scorso), e soprattutto contro le aspirazioni nucleari dell’Iran che, secondo gli esperti, si sono ulteriormente consolidate. Nemmeno dall’amico Trump, che a Tel Aviv si spera torni a novembre alla Casa Bianca, Israele aveva ottenuto luce verde (c’è un limite anche alla dissennatezza).
E infatti, Joe Biden, che deve gestire in piena campagna elettorale un’altra tegola di grandi proporzioni, ieri pomeriggio ribadiva l’assoluto impegno americano per la difesa di Israele (meno del suo premier e della sua coalizione di estremisti colonizzatori), ma a tarda sera già “consigliava all’alleato” assolutamente di non reagire, aggiungendo che se questa fosse la volontà di Israele la Casa Bianca non muoverebbe un dito in sostegno di una controffensiva israeliana.
Secondo vecchia regola, si sa come un attacco militare inizia, ma mai come si sviluppa e finisce. Quindi a cancellare l’ampio margine di incertezza non bastano gli “ordini” statunitensi, da cui fino all’altro ieri Netanyahu ha platealmente disatteso (meglio, disubbidito). Tuttavia persino il premier più longevo e più contestato della storia israeliana sa che oggi il suo paese può politicamente recuperare almeno in parte la simpatia e l’empatia internazionale sbriciolati sotto le macerie e le decine di migliaia di morti civili palestinesi nel disastro anche umanitario di Gaza. Da cui lo sguardo della comunità internazionale si allontana, forse per ore, forse per giorni. Non ha interesse a sbriciolare anche questo eventuale cinico vantaggio.
Speranza riposta in una razionalità che certo non abbonda nel nevrotico campo mediorientale. Da qui, il robusto e pericoloso grumo di incognite che rimangono drammaticamente aperte.
Nell’immagine: il Parlamento iraniano festeggia il “glorioso successo” dell’attacco a Isreale