Di Corrado Augias, La Repubblica
Due frasi terribili sono state pronunciate giovedì 28 marzo. I giornali europei le hanno correttamente riportate ma con misura, senza particolari sottolineature. Putin ha avvertito che la Russia colpirà gli aerei con cui Zelensky conta di rovesciare le sorti del conflitto «da qualunque aeroporto decolleranno. Compresi quelli di Paesi terzi». In altre parole, ha tirato in ballo i territori che fanno parte dell’Alleanza Atlantica, Paesi legati da un patto di mutuo soccorso. Il premier polacco Donald Tusk ha detto che per la prima volta dal 1945 si sta scivolando in una fase «prebellica» con la Russia. E che l’Europa è drammaticamente impreparata ad affrontarla.
L’aspetto preoccupante è la relativa indifferenza con la quale queste due espressioni sono state accolte dall’opinione pubblica. È probabile che ci siano centri di strategia militare al lavoro su avvertimenti di questo calibro, non si registrano però scosse significative a livello di opinione pubblica.
Sono ormai settimane che la parola guerra, la probabilità di una guerra, l’utilizzo possibile di armi atomiche tattiche vengono ripetuti; non si registrano piazze gremite, né cortei, né autorevoli leader che invochino la ragione, ricordino quale sciagura sarebbe se alla parola guerra seguisse nel concreto una guerra. Temo di dover dire che alla reale possibilità d’una guerra nessuno per il momento davvero crede, al riparo come siamo di una deterrenza nucleare che lascerebbe sul campo non vincitori e vinti ma solo un’immane ecatombe.
Sono ottant’anni che all’interno dei confini dell’Unione Europea la guerra è diventata quasi esclusivamente materia di studio, alimento per sceneggiati televisivi oppure per i telegiornali, che offrono ogni giorno le loro immagini saturando la fantasia e le capacità reattive di chi le guarda. Le strazianti immagini dell’Ucraina, quei buchi, quelle macerie, l’affanno dei soccorritori, i patetici getti d’acqua dei pompieri, sono storie che accompagnano la nostra cena guardate con l’indifferenza delle cose lontane, le sventure che accadono agli altri.
Le stesse reazioni c’erano qualche decennio fa con le capanne in fiamme del Vietnam, i bambini nudi e terrorizzati che correvano con la pelle ridotta a brandelli dal napalm. Fatti anche più lontani, nel tempo, nello spazio. Tale l’assuefazione che né la parola né le immagini bastano ormai per imprimere quella scossa elettrica che la prospettiva di un conflitto, giudicata realistica e forse non lontana dal leader polacco, dovrebbe imprimere a masse considerevoli di cittadini italiani ed europei.
Nel 2013 l’editrice Laterza pubblicò un saggio dello storico Christopher Clark (insegna Storia moderna a Cambridge) dal titolo I sonnambuli. Come l’Europa arrivò alla Grande Guerra. Gli inconsapevoli camminatori notturni richiamati dal titolo erano i leader dei vari Paesi europei (imperatori, regnanti, ministri, generali, ambasciatori), gli attori dei principali centri decisionali di Vienna, Berlino, San Pietroburgo, Parigi, Londra, Belgrado. Con brevi escursioni (così le definiva l’autore) a Roma, Costantinopoli e Sofia.
L’idea di fondo era che nessuno, tra chi aveva il potere o possedeva gli strumenti, la preparazione, la competenza per capire lo sviluppo degli avvenimenti, nessuno di costoro tra il 28 giugno — attentato di Sarajevo — e il 2 agosto, quando la guerra esplose, si rese mai veramente conto di quanto stava per accadere, tanto meno delle conseguenze che l’immane deflagrazione avrebbe avuto sul destino dell’Europa, su intere generazioni di suoi figli, sugli equilibri politici e militari compromessi con tale violenza da comportare la nascita di alcune dittature e ulteriori cinque anni (1940-1945) di devastante conflitto.
Lo studente indipendentista serbo Gavrilo Princip, uccidendo a Sarajevo (domenica, 28 giugno) l’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando e sua moglie Sofia con qualche colpo di un antiquato revolver, pensava di rivendicare la libertà della sua terra mai immaginando di innescare un’esplosione di quella magnitudine.
A lungo gli storici hanno considerato la “scintilla” di Sarajevo come una fatalità in un Paese, la Serbia, pedina o vittima della politica delle grandi potenze. Valutazione sulla quale Clark non è d’accordo. Scrive nel saggio che, tanto più dopo le guerre jugoslave degli anni Novanta, “è più facile concepire il nazionalismo serbo come un’autonoma forza storica”.
Anche oggi stiamo vivendo la possibilità che si scateni un’autonoma forza storica con i postumi dell’attentato di Mosca rimasto inspiegabile nella sua meccanica in un Paese che vive sotto stretta sorveglianza poliziesca.
Nel 1914 passò un mese prima che quei colpi di pistola arrivati a bersaglio solo per una serie di fortuite circostanze, facessero aprire il fuoco ai “Cannoni d’agosto”, come li ha chiamati un’altra grande storica, Barbara Tuchman. In quel mese si susseguirono inutili incontri, svogliati conciliaboli, trattative distratte.
Anche allora l’Europa riposava su anni che sarebbero stati definiti, a torto o a ragione, “La Belle Epoque”. La guerra franco-prussiana che aveva sbalzato Napoleone III datava ormai da quarant’anni.
Oggi all’interno dell’Unione Europea veniamo da ottant’anni di pace, ci sono tre generazioni che non hanno idea di che cosa voglia dire la guerra, non quella che si vede nei telegiornali, ma quella che ti cade sulla testa, abbatte la tua casa, uccide persone care e amici, distrugge la tua vita.
È comprensibile che in queste condizioni le notizie quotidiane sulla possibilità d’un conflitto vengano scavalcate da quelle relative a un torneo di tennis o una gara di motociclette, ottant’anni di pace bastano a spiegare l’indifferenza con la quale ogni giorno si scrive e si legge d’una possibile guerra.
“Sonnambuli”, ha scritto Clark, riprendendo il titolo di una celebre trilogia dello scrittore austriaco Hermann Broch. Sonnambulo è qualcuno che immerso in un sonno profondo cammina, parla, compie azioni, svolge attività anche complesse ma senza rendersi conto di ciò che fa, ignorando ambiente, circostanze, conseguenze del suo agire. Era più di un secolo fa, il 1914, quando questo avvenne. Le possibilità che il fenomeno possa ripetersi ci sono.
Nell’immagine: 1914, la copertina della Domenica del Corriere dedicata all’attentato di Sarajevo