C’era un’istantanea che in quegli anni era quasi iconica e voleva diffondere l’idea di quanto utile, simpatica, e caratteristica fosse la politica svizzera di aiuto al povero Ruanda. L’istantanea di autopostali gialli, come i nostri; col muso lungo o piatto, come i nostri; con i clacson imperiosi, gli stessi che squarciano i silenzi delle valli svizzere; e passeggeri locali visibilmente allegri, beh questi non proprio come i nostri.
Erano gli Anni Settanta-Ottanta del secolo scorso, e il “giallo” di quei veicoli si arrampicava sulle strade del piccolo paese africano, detto anche delle “mille colline”. Imitazioni? No. Quei veicoli erano proprio svizzeri, orgogliosamente “made in Switzerland”, come la cioccolata, gli orologi, le banche (ma erano altri tempi). Dismessi, i mezzi di trasporto simboli dell’operosità e peculiarità confederata, venivano regalati e inviati al governo di Kigali. Un tocco elvetico fa sempre piacere.
Come ci si era arrivati? Tempo prima, Berna, un po’ sotto pressione e criticata nel Continente come nazione opulenta ma troppo sparagnina nel soccorso internazionale, aveva preso una decisione ‘strategica’: proprio il Ruanda doveva diventare prioritario, e rappresentare il modello virtuoso nel nostro aiuto umanitario all’estero. I fondi necessari non vennero lesinati, i progetti si moltiplicarono, così come le buone idee da suggerire, predisporre e in parte finanziarie. Non vi bastano gli auto-postali? Ecco allora un esempio più ‘serio’: la nascita in pieno continente nero di una rete di piccole banche locali popolari, sul modello delle elvetiche Raiffeisen.
Suggerimenti e investimenti (in totale circa 500 milioni di franchi, non pochi per l’epoca) apprezzati dal governo locale. Tanto che nell’ex colonia (prima tedesca, poi belga) furono ben sei gli svizzeri ingaggiati come consiglieri personali dai presidenti ruandesi. Tutti rigorosamente Hutu, etnia maggioritaria e più povera; per contro tutsi quella minoritaria e più istruita. Non che i cooperanti svizzeri non vedessero il tarlo delle tensioni inter-comunitarie, che già provocavano regolarmente improvvise fiammate di violenze contro la minoranza. “La Svizzera – disse poi lo storico Lukas Zürcher, autore di una ricerca sul tema – non minimizzava affatto il problema, ma aveva deciso di non denunciarlo”. Al potere c’erano gli Hutu, e con loro bisognava stare e collaborare nonostante tutto. Fu addirittura elaborata una teoria stramba e giustificatoria, così spiegata, sempre dal professor Zürcher: “Era stato tracciato un parallelismo fra la situazione ruandese e la Svizzera del Medioevo, in cui i tutsi erano assimilati agli Asburgo e gli hutu ai Confederati”. Da non credere.
In realtà, c’era anche l’ambizione elvetica di far parte di un progetto più generale di neo-colonialismo, e la volontà di inserirsi nel disegno occidentale della guerra fredda, per impedire lo scivolamento dell’Africa verso il modello comunista. Comunque, la neutralità elvetica continuava ad essere la favola perfetta per giustificare il silenzio svizzero sulle prime stragi in Ruanda: non si ficca il naso negli affari interni di un’altra nazionale. Così il modellino elvetico-africano sembrava funzionare.
il risveglio non poté essere più violento. Attentato del 16 marzo 1994, abbattimento dell’aereo con a bordo il presidente Juvénal Habyarimana, che tra i suoi consiglieri aveva avuto lo svizzero Charles Jeanneret (salario 200 mila franchi all’anno per 11 anni). L’odio e la vendetta anti-tutsi scatta come un lampo. Sconsiderati e fanatici appelli radio, milizie organizzate all’assalto, gruppi di semplici cittadini inferociti, machete, bastoni, pietre; caccia spietata anche a donne e bambini; incendi e saccheggi; infinite mutilazioni; sul terreno e nelle acque dei fiumi i cadaveri abbandonati, terribile monito e simbolo di una tragedia sconvolgente. Fu genocidio.
Ottocentomila morti in appena 100 giorni di barbarie e follia. Come se si fosse scatenato l’irresistibile impulso omicida nel fare i conti nel peggiore dei modi possibile; retaggio storico da tempo superato nei fatti ma che immediatamente era tornato ad agitare la memoria collettiva e ad avvelenare il sangue degli hutu, trattati da schiavi da colonizzatori che avevano sempre privilegiato i tutsi, ritenendoli più evoluti ed affidabili. Razzismo del razzista civilizzatore
Quindi, postuma punizione collettiva. Fin quando un giovane comandante tutsi di nome Paul Kagame – oggi presidente al terzo mandato, filo-occidentale e soprattutto pro-americano, che ancora interviene militarmente nei paesi confinanti (come il Congo) per mettere le mani su preziose abbondanti materie prime, non un dittatore sanguinario ma che tiene a bada con metodi spicci l’etnia un tempo padrona del Ruanda – , fin quando non riuscì a organizzare un esercito non grande ma motivato per una rapida controffensiva militare, che fece molte altre vittime prima di poter marciare vittorioso sulla capitale. Guerra civile congelata nel sangue. E nemmeno è detto per sempre.
E la cooperazione svizzera? Fa ancora la sua giusta parte, rappresenta circa il 5 per cento dell’aiuto internazionale al Ruanda. Ma certo, nessuno osa più sognare quel piccolo Stato africano trasformato in fantasioso, illusorio, improponibile modellino da “Svizzera in miniatura”.
Nell’immagine: alcune delle 800’000 vittime del genocidio ruandese (foto SRF)