Più bombe che pane
Aperto e subito chiuso il confine di Rafah, al confine egiziano, da cui sono transitati soltanto pochi autocarri con aiuti umanitari; un gioco cinico e immorale
Filtra per rubrica
Filtra per autore/trice
Aperto e subito chiuso il confine di Rafah, al confine egiziano, da cui sono transitati soltanto pochi autocarri con aiuti umanitari; un gioco cinico e immorale
• – Aldo Sofia
Ogni santo giorno in Italia c’è da occuparsi di Andrea Giambruno, che se non avesse conosciuto la presidente del Consiglio sarebbe rimasto uno che si ravana il pacco in una redazione, invece che in uno studio televisivo; e la premier lo lascia via social
• – Redazione
Stampa / Pdf
• – Franco Cavani
Riflessioni rivolte al vicesindaco di Locarno Giuseppe Cotti - Di Cleo Margnetti
• – Redazione
Il Blasco si racconta in una bella docuserie visibile da qualche giorno sulla piattaforma di streaming “Netflix”
• – Michele Realini
Una significativa scelta di opere pittoriche del regista Bruno Soldini, in mostra alla Galleria Job di Giubiasco
• – Redazione
La multinazionale ha versato 70.000 franchi all’UDC e al PLR, partiti in prima linea contro le regolamentazioni anti tabacco
• – Federico Franchini
Se il viaggio di Biden è stato un fallimento completo lo sapremo tra pochi giorni rispetto a due obiettivi: «contenere» l’esercito israeliano ed evitare un incendio regionale
• – Redazione
Il direttore della rivista politica «The New Republic», figlio di ebrei emigrati dal Sud Africa. «Il progetto al quale i sionisti liberali come me si sono dedicati per decenni è fallito»
• – Redazione
Lotta di classe in America - Il rifiuto del modello di lavoro e l’urgenza di salvare l’ambiente, stanno imprimendo dei cambiamenti profondi nella società, rivoluzionando la scala di valori di sistema
• – Christian Marazzi
Aperto e subito chiuso il confine di Rafah, al confine egiziano, da cui sono transitati soltanto pochi autocarri con aiuti umanitari; un gioco cinico e immorale
Conta invece riflettere sui motivi che da giorni paralizzano gli articolati che trasportano quello che dentro l’inferno tragicamente manca: alimenti, acqua, medicinali, carburante. E si tratta unicamente del minimo, veramente dell’essenziale per la sopravvivenza chi ha perso tutto sotto le macerie delle abitazioni sbriciolate, rase al suolo dai missili lanciati da Israele per una prima tremenda bonifica (oltre quattro mila morti finora, e oltre diecimila feriti) a nord e sud di Gaza City. Quella parte del territorio arabo che Israele ha deciso di desertificare e svuotare dei suoi abitanti per realizzare il piano di una “zona cuscinetto” (almeno una ventina di km di profondità e una decina in larghezza), ennesima strategia per garantirsi un sistema di sicurezza, illusione e mito che Israele ha due settimane fa ha perso, e chissà se e quando ritroverà.
Di chi è dunque la responsabilità della frontiera a lungo sbarrata? Di chi questo cinismo politico che fa parte di una immorale “punizione collettiva”? I due protagonisti di quest’ultimo capitolo possono certo avere ragione quando riflettono sulla loro incolumità futura: Il presidente/dittatore egiziano Al Sisi è evidentemente allarmato dall’ipotesi che una volta aperto un varco altri possono prodursi, riversando masse di profughi gazawi, infiltrate da miliziani armati, con destinazione il Sinai, un deserto in cui non mancano santuari dell’Isis, tuttora attivi in sanguinosi assalti contro caserme della polizia e delle forze armate egiziane; e se quelle falle si producessero, Israele teme di mancare il suo ‘target’ principale, sradicare da Gaza i jihadisti, qualora questi ultimi trovassero ospitalità fra Rafah e il canale di Suez, saldandosi così alla presenza dei tagliagole dello Stato islamico, di cui il 7 ottobre hanno mutuato l’intollerabile ferocia anche contro i civili ebrei. Ma basta a giustificare la punizione collettiva dei palestinesi, spossati e privati per lunghi giorni di prodotti vitali? Autorizzare gli aiuti ad entrare, sapendo che comunque a nessuno è permesso uscire (nemmeno i feriti e i malati), quale rischio comporterebbe?
La pace fra Il Cairo e Tel Aviv (che 48 anni fa portò il presidente Anwar el Sadat, poi crivellato dai mitra di un commando islamista egiziano, allo storico discorso dalla tribuna del parlamento israeliano) è una “pace fredda”, soprattutto da parte araba. Ricordo, dopo lo storico primo trattato fra lo Stato ebraico e la più popolosa nazione araba), di essermi recato per un reportage televisivo alla presunta “Sinagoga di Mosé” nella capitale egiziana, quindi luogo altamente simbolico: presidiata da due sonnolente guardie municipali, ci trovai soltanto tre turisti europei e… due cittadini israeliani. Gli egiziani non l’hanno mai vissuta, quella pace seguita alla guerra del Kippur, come un incontro di popoli. E questo in contrasto con gli accordi commerciali, ma soprattutto di natura militare, fra i vertici dei due paesi. Israele, nel tentativo di sigillare la Striscia, aveva anche ottenuto mano libera anche a ridosso del confine egiziano, e anche oltre: ha sempre potuto sconfinare sul deserto del Sinai egiziano quando ha ritenuto indispensabile dare la caccia ai fedayn prima e ai jihadisti gazawi poi.
D’altra parte l’Egitto, che fino alla guerra dei ‘sei giorni’ (1967) aveva praticamente inglobato Gaza, ha sempre fatto capire di non volere di nuovo dentro i suoi confini quella “polveriera”, abitata dal 1948 da profughi palestinesi fuggiti dal primo conflitto fra israeliani ed arabi), diventata nella metà degli anni Duemila base di Hamas, infine l’ “inferno” che conosciamo.
È su questa tela di fondo che occorre leggere gli avvenimenti degli ultimi giorni e anche delle ultime ore. L’Egitto non ha potuto non tener conto delle citate preoccupazioni e dei “consigli israeliani”, tenere sigillata la frontiera di Rafah a costo di impedire un pronto soccorso umanitario. Il rais soltanto oggi ha potuto procedere, seppur col contagocce: non a caso nel giorno in cui Al Sisi raccoglie al Cairo qualche decina di leader arabi ed europei per parlare di “de-escalation” della guerra, di prevenire un incendio regionale, e possibilmente di soluzioni politiche più a lungo termine. Per lui, la perfetta coincidenza fra vertice e apertura all’aiuto è anche gioco propagandistico. Mentre, sull’altro fronte, Netanyahu ha dovuto cedere almeno, e comunque parzialmente, a questa richiesta di Biden (due che non si sono mai molto amati), dopo aver fatto spallucce, almeno finora, alla richiesta di non mettere in atto l’intervento terrestre e quindi a non commettere gli stessi errori fatti dagli Stati Uniti dopo l’11 settembre: quindi nella lotta al terrorismo in Irak e Afghanistan, da cui la superpotenza è obiettivamente uscita sconfitta, ridimensionata anche politicamente e strategicamente (Putin avrebbe attaccato l’Ucraina se non avesse assistito al caos e alla resa americana nei confronti dei talebani a Kabul?).
Così, per giorni, e probabilmente nei prossimi, viste le urgentissime necessità di migliaia di profughi interni a Gaza, e tenuto conto che per un efficace intervento umanitario ci vorrebbero molto più tempo e molti più trasporti autorizzati a varcare i cancelli di Rafah, su quei pochi chilometri quadrati chiusi fra le due porte dell’inferno, dal cielo e da terra continueranno a piovere altri micidiali missili, e si intensificherà il crepitio delle armi. Ancora una volta, più bombe che pane.
Nell’immagine: un autocarro della Mezzaluna rossa egiziana attraversa il valico di Rafah
Una storia esemplare, il licenziamento di oltre 400 operai attraverso un email notturno. Ma chi è il proprietario?
Al potere dal 1985, il Primo Ministro cambogiano, 70 anni, ha annunciato le dimissioni tre giorni dopo la sua vittoria elettorale. A succedergli sarà il figlio Hun Manet: uno...